A proposito della confessione dei peccati. Riflessioni ecclesiologiche e antropologiche
di Gianni Cioli · In un recente numero del settimanale Toscana oggi ho avuto l’opportunità di pubblicare alcune considerazioni sulla confessione dei peccati, quale elemento imprescindibile nella celebrazione del sacramento della penitenza, che propongo, con qualche modifica, a Il Mantello della giustizia di dicembre, anche in vista della preparazione al Natale, occasione che, tradizionalmente, avvicina ancora certo numero di fedeli alla penitenza sacramentale.
Le riflessioni costituiscono, in realtà, la risposta alla domanda posta da un lettore del settimanale: “Perché c’è bisogno della confessione? Non basta raccontare a Dio, in preghiera, i propri peccati e chiedere a Lui il perdono?”.
Si tratta, in realtà, di un quesito ricorrente fra i cristiani di oggi, un quesito che, forse, segnala una certa disaffezione nei confronti del sacramento della penitenza. Per capire le ragioni di tale domanda ci si dovrebbe interrogare in maniera seria sulle radici e sulla qualità dell’attuale crisi del sacramento. Dipende dalla sfiducia generale nelle istituzioni e nell’autorità (che non risparmia la Chiesa)? Dal crescente soggettivismo in ambito morale? Dall’evaporazione del senso del peccato? O da cos’altro ancora?
Non potendo addentrarmi in tale ginepraio di questioni, mi sono limitato ad offrire due brevi considerazioni come risposta, una di carattere teologico o, più esattamente, ecclesiologico, e una di carattere antropologico, consapevole che quanto detto risulterà riduttivo rispetto alla vastità dei problemi che la domanda nella sua semplicità pone.
La prima considerazione, più teologica, è questa: la Chiesa insegna che la confessione sacramentale è necessaria per la remissione dei peccati gravi (quelli lievi possono essere perdonati per altre vie), commessi dopo il battesimo. La celebrazione del sacramento della penitenza è dunque profondamente collegata a quella del battesimo ed ha lo scopo, mediante l’assoluzione dai peccati gravi, o mortali, di ricostituire quella piena comunione con la comunità ecclesiale, in cui il battesimo ci ha inseriti, e che il peccato (grave) ha incrinato. Il battesimo ci fa entrare in comunione con Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, inserendoci nella vita della Chiesa. Il peccato compromette la comunione con Dio e con la comunità cristiana. La riconciliazione con la Chiesa, che si realizza con la celebrazione del sacramento della penitenza, permette di ritrovare la santità battesimale, ovvero la piena comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Alcuni scrittori cristiani antichi definivano, in effetti, il sacramento della penitenza come un “battesimo faticoso”, sottolineandone le analogie e le differenze con il primo sacramento. E come uno non può battezzarsi da solo, per entrare a far parte della Chiesa, ma deve essere battezzato da qualcuno che agisce in nome di essa, così il sacramento della penitenza, deve essere celebrato di fronte al ministero a ciò deputato dalla Chiesa e nelle modalità da questa stabilite.
Si può aggiungere che il sacramento della penitenza, vissuto con questa consapevolezza, ci può aiutare a riscoprire la bellezza del battesimo. Il battesimo è il sacramento che dona la libertà di amare, sottraendo il cristiano alle costrizioni del peccato. La penitenza è il sacramento che ridona tale libertà, rimettendo i peccati gravi del battezzato e aprendo la strada a un possibile impegno di conversione sincero e profondo. Il peccato, infatti, ostacola la libertà di amare rendendo difficile il riconoscimento del bene ed ostacolando la piena adesione ad esso.
La seconda considerazione, più antropologica, è questa: per mettersi pienamente di fronte alle proprie colpe e per sentirsi davvero perdonato, l’essere umano ha bisogno di confrontarsi con un proprio simile. Nella pretesa di porsi da soli di fronte a Dio, si può correre il rischio di ritrovarsi, in realtà, da soli con sé stessi, con la conseguenza, o di autoassolversi senza autentico pentimento, o, viceversa, di autocondannarsi senza appello. Confessare i propri peccati, ovvero chiamarli per nome, di fronte a qualcuno che mi fa da specchio, è la strada migliore per poter prendere le distanze dal male commesso, senza autoingannarsi. Anche perché, purtroppo, al male commesso talora possiamo anche essere, in una certa misura, affezionati. Il rischio di autoingannarsi e di autoassolversi è, infondo, ricollegabile, per dirla con una efficace espressione di Benedetto XVI, a quello della fede “fai da te”.
Possiamo aggiungere che il confessore è anche colui che ha il compito di aiutare il peccatore a trovare la giusta terapia per guarire dalle conseguenze dei peccati, indicando la congrua la penitenza (o soddisfazione che dir si voglia), come via che chi ha peccato è chiamato a percorrere per una conversione autentica e foriera di gioia cristiana.