di Gianni Cioli · Nell’ambito della rubrica “Risponde il teologo” del settimanale Toscana oggi, un lettore poneva, qualche tempo fa (19/02/2017), la seguente questione:
«Nel catechismo tradizionale si spiegava che il Paradiso era l’eterno godimento della luce e della visione di Dio, il Purgatorio era uno stadio transitorio in cui, appunto, si purgavano i peccati meno gravi, mentre i tormenti eterni dell’Inferno erano riservati per chi moriva in peccato mortale. Questa tripartizione del mondo ultraterreno – che è quella di Dante – non mi ha mai convinto, almeno per quanto concerne l’Inferno, soprattutto per la sproporzione tra peccato e pena. Il peccato dell’uomo potrà anche essere grave, gravissimo, mostruoso. Ma non è mai infinito, perché è comunque umano. Invece la pena dell’Inferno è infinita, perché è eterna. Non c’è qui una sproporzione, cioè una ingiustizia? E come si concilia una pena eterna con l’antica (salmo 135: «Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia») e la nuova (Papa Francesco) dottrina della misericordia di Dio? ».
La questione posta dal lettore, in realtà, non è affatto banale. Non scaturisce semplicemente dalla considerazione delle ragioni della misericordia che possono contrastare, come spesso si ritiene, con quelle della giustizia. Il lettore si chiede invece se non debbano essere proprio le ragioni della giustizia ad escludere la prospettiva di una pena infinita, dato che l’atto umano non può, proprio perché umano, avere un valore infinito.
La questione posta in questi termini suona suggestiva ma la risposta a cui sembrerebbe condurci non è tuttavia ovvia.
Anselmo di Aosta (1033-1109), ad esempio, nel Cur Deus homo (1098), fonda la sua teologia della redenzione sul presupposto diametralmente contrario che, pur essendo posto da una creatura finita, il peccato riveste un peso infinito perché costituisce una offesa fatta a Dio che è infinito. Si potrebbe obiettare che il presupposto del ragionamento di Anselmo – l’offesa assume un peso diverso a seconda di chi ne è vittima – è condizionato da una visione del diritto e della giustizia tipicamente medievale. Ma come non prendere atto, allora, che anche la nostra visione di diritto e di giustizia, a cui si appella implicitamente il lettore, è condizionata e condizionante.
D’altra parte la filosofia, anche nella modernità, non ha cessato di indagare sul possibile significato infinito dell’azione posta dall’essere umano nella sua finitudine (cf. M. Blondel, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, 1893).
Nell’affrontare queste problematiche – come mette in rilievo Hans Urs von Balthasar, uno dei più grandi teologi cattolici del novecento, in un appassionato saggio: Sperare per tutti (Milano 1988) – è necessario assumere una disposizione di grande umiltà e cautela derivante dalla consapevolezza di stare al di sotto del giudizio di Dio e non al di sopra di esso. È necessario inoltre tener conto delle delimitazioni invalicabili tracciate dal magistero della Chiesa che insegna l’esistenza dell’inferno e condanna la dottrina dell’Apocatastasi, ovvero della restituzione finale dell’intera creazione, inclusi i peccatori, i dannati e i demoni, a uno stato di beatitudine perfetta (Denz 411). Insomma, se si vuole aderire alla dottrina cattolica, non si può escludere la possibilità di una pena eterna.
Questo non significa che non sia legittimo sperare per tutti, per riprendere il titolo italiano del saggio di von Balthasar che abbiamo ricordato (che nella versione originale suona però Was düfren wir hoffen? Che cosa possiamo sperare?). Ma semplicemente significa che non possiamo presumere, per un essere umano, l’assoluta impossibilità di chiudersi alla misericordia di Dio con un «no!» ostinato. Come ricorda anche il Catechismo degli adulti della Conferenza episcopale tedesca (1985): «Né nella sacra Scrittura, né nella Tradizione di fede è detto con certezza di alcun uomo che egli si trovi effettivamente nell’inferno. È vero invece che l’inferno viene sempre tenuto davanti agli occhi come una possibilità reale, legata all’esigenza di conversione». Insomma posso sperare per tutti. Ovvero posso sperare che nessun essere umano si ostini nel rifiuto della misericordia di Dio e quindi si autocondanni all’inferno. Ma dovrò al contempo anche sinceramente temere per me, e vigilare sull’autenticità della mia vita, perché non posso affatto presumere che per me una simile ostinazione sia impossibile.
D’altronde, come ha efficacemente messo in evidenza Josef Pieper, un grande filosofo cattolico del secolo scorso, timore di Dio e virtù della speranza, sono intimamente e strutturalmente connessi ed entrambi si ricollegano alla carità, ossia alla amicizia con Dio, concretamente vissuta: il timore filiale cresce nella stessa misura con cui si realizza l’amicizia con Dio. In ciò sta qualcosa che a prima vista può sorprendere, ma che si svela ad una più profonda comprensione: «Da un lato per l’homo viator non si può escludere la reale possibilità della colpa neanche ai più alti gradi del suo amore per Dio. […]. Dall’altro lato il senso del peccato riferito al nulla e all’annientamento, diventa visibile nella sua propria negatività solo allo sguardo dell’amico di Dio; solo l’amore soprannaturale verso Dio […] pone l’uomo nella condizione e nella necessità di temere la possibilità del peccato tanto quanto si conviene alla sua reale terribilità» (J. Pieper, Sulla speranza, Brescia 1953, 57).