di Gianni Cioli · La fede nella maternità divina di Maria, da sempre al cuore della devozione popolare, ha trovato espressione fin dall’antichità nell’iconografia cristiana orientale e occidentale, contribuendo a far maturare la percezione del valore della vita umana e della dignità di ogni maternità.
Se si confessa che il Figlio di Dio si è fatto uomo, allora la vita umana è percepita in tutto il suo valore (K. Demmer, «Il nuovo nell’attuale problematica intorno allo specifico dell’etica cristiana», in L. Álvarez-Verdes [ed.], Il problema del nuovo nella teologia morale, Roma 1986, pp. 79-98). Non è un caso che il concetto antropologico di persona sia maturato nell’ambito della cultura cristiana, portando a compimento le premesse della rivelazione biblica. Nel mondo antico, e in particolare nell’antica Roma, l’infanticidio e l’aborto venivano praticati nella più assoluta legalità. I figli, nati e nascituri, erano considerati esclusiva proprietà del padre (patria potestas) che aveva la facoltà di disporne a piacere e insindacabilmente, fino a deciderne l’abbandono destinandoli non di rado a una vita di schiavitù e di abusi, o addirittura la morte, senza alcuna considerazione della volontà della madre. Sebbene con l’avvento del cristianesimo di fatto la pratica dell’abbandono dei neonati non sia cessata, come avrebbero voluto alcuni padri della chiesa, dato che talvolta ancora vi ricorrevano le famiglie indigenti, con l’avvento della civitas christiana, e in particolare a partire da alcuni provvedimenti dell’imperatore Costantino, la comunità si fece carico dei bambini abbandonati mediante istituzioni concepite ad hoc. Fra gli istituti realizzati nella tarda antichità merita una particolare menzione il complesso ospedaliero conosciuto come Basiliade, fondato da Basilio Magno (329-379), vescovo di Cesarea di Cappadocia, nel quale venivano accolti sia i bambini abbandonati (brefotrofio) che gli orfani (orfanotrofio Cfr. M. Cassia, La piaga e la cura: poveri e ammalati, medici e monaci nell’Anatolia tardo antica, Acireale 2009, pp. 37-38). Erede di questa tradizione, nella Firenze del quattrocento venne istituito lo Spedale degli Innocenti (oggi Istituto degli Innocenti), la più antica istituzione italiana concepita non soltanto per l’accoglienza ma anche per l’educazione e la formazione dell’infanzia abbandonata.
Paradossalmente, un luogo di accoglienza di bambini abbandonati, che pare evocare la perdita e la negazione della figura materna piuttosto che la sua affermazione e valorizzazione, rappresenta in effetti un profondo riconoscimento del valore della maternità. Lo Spedale degli Innocenti costituisce un esempio concreto dell’impegno di una comunità civile ad accogliere e proteggere il suo frutto, cioè la vita umana, dall’inizio del suo percorso all’inserimento felice nella società.
Si tratta perciò di un modello virtuoso di maternità sociale che non intende idealmente sostituirsi alle responsabilità dei genitori, ma che, nella prospettiva del bene possibile anche in un mondo segnato dal male, è capace di entrare in gioco allorquando le circostanze infelici rendessero impossibile ai genitori l’accoglienza dei figli.
È possibile cogliere un nesso fra l’affermazione teologica della maternità divina di Maria, ovvero del mistero dell’incarnazione, e le esperienze di maternità sociale (di cui il caso dello Spedale è un esempio eccellente) che hanno distinto la sensibilità e la prassi della società cristiana. Nella storia dell’Istituto si possono ravvisare alcuni elementi che fanno apparire ancora più stringente la consapevolezza del nesso, che sta alla base dell’esperienza di maternità sociale cristiana, fra la maternità divina di Maria e il riconoscimento del valore della vita umana che si è voluto salvare e promuovere.
Un singolare elemento è certo costituito dal nome che fu attribuito al luogo in cui, dal XVI secolo, i bambini venivano anonimamente deposti, direttamente nella chiesa dell’Istituto, «attraverso un’apertura praticata nel muro d’ingresso dell’ospedale, fasciata con un cuscino» (T. Takahashi, Il rinascimento dei trovatelli: il brefotrofio, la città e le campagne nella Toscana del XV secolo, Roma 2003, p. 32). Il luogo, infatti, fu denominato “presepio”, forse a partire dal Seicento quando, vi furono collocate «due terracotte di Marco della Robbia, raffiguranti la Madonna e San Giuseppe, a rappresentare un presepe perenne, dove il trovatello impersonava ogni volta il piccolo Gesù» (L. Sandri, «Mercato del latte e figli abbandonati negli ospedali toscani dal tardo Medioevo ai giorni nostri», in A. Dadà [ed.], Balie da latte: istituzioni assistenziali e privati in Toscana tra il XVII e il XX secolo, Firenze 2002, pp. 19-20). L’intento era sicuramente quello di evocare la scena della nascita del Signore per affidare idealmente i bambini abbandonati alla Madre di Dio come figli suoi, con una sorta d’identificazione simbolica di ogni “innocente” con il santo Bambino. La maternità di Maria appare così, in questa sorta di traslazione simbolica, la porta d’ingresso alla speranza di poter rimediare cristianamente il male della maternità perduta e negata con il bene della maternità sociale sostenuta da una comunità capace di solidarietà. Del resto in nome stesso di “Innocenti”, attraverso l’evocazione intenzionale dell’episodio evangelico della strage avvenuta per volontà di Erode secondo l’evangelista Matteo (2,1-16), ha fin dall’inizio contenuto in sé non soltanto un rimando al bambino Gesù ma anche un ammonimento e un’incitazione a reagire concretamente all’ingiustizia sociale che condannerebbe tanti inermi senza colpa agli stenti o alla morte, secondo lo spirito di quell’umanesimo cristiano e militante che ha contraddistinto la cultura e la società fiorentina nei secoli.
(Il contributo riporta, con adattamenti, una parte dell’articolo pubblicato su Giornale di bordo, Terza serie, nn. 53-54 [2020], con il titolo Maternità sociale: note a margine dello stendardo della Madonna dello Spedale degli Innocenti in Firenze)