Il discorso del papa alla Curia: necessità della conversione della Chiesa

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Papa e Curiadi Francesco Vermigli • Il discorso rivolto dal papa alla Curia venerdì 21 dicembre in occasione degli auguri natalizi, nasconde passaggi radicali che sembra opportuno far emergere. Non v’è dubbio che nel corso del suo pontificato egli abbia più volte ribadito la necessità improrogabile della conversione missionaria e pastorale della comunità ecclesiale; e molte volte egli ha chiamato con il proprio nome ogni forma di abuso all’interno della Chiesa. Ma nel discorso tenuto nella Sala Clementina a conclusione dell’anno, i toni sono ancora più chiari e decisi, perché collocano ogni invito alla conversione entro considerazioni spirituali ed ecclesiali profonde.

Lo spunto iniziale è dato da Rm 13,12 («La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»); ma ben presto il tema della luce – così intimamente legato a quello del Natale e della salvezza che viene recata il giorno della nascita di Gesù – lascia il posto a quello delle tenebre. Perché la grazia e la salvezza che si fanno carne nel Bambino di Betlemme devono essere accolte e custodite; guadagnate, per così dire, dalla volontà e dal quotidiano impegno del cristiano. Al contrario – quando questo non accade ad esempio tra i consacrati – questi si fanno i “padroni”, i “controllori” e i “doganieri” di quella stessa salvezza di cui dovrebbero essere i servitori.

Un passaggio («le difficoltà interne [alla Chiesa] rimangono sempre quelle più dolorose e più distruttive») segna la svolta del discorso, perché indica che la Chiesa deve guardarsi prima dai nemici interni, piuttosto che da quelli esterni: per quanto non citato, riecheggia il brano in cui Gesù mette in guardia i discepoli dal temere non tanto coloro che possono uccidere il corpo e non l’anima, ma da colui che può uccidere e l’anima e il corpo (cfr. Mt 10,28 e Lc 12,5). Il discorso si avvolge attorno ad una sorta di “icona biblica della contro-testimonianza”, che ben si adatta a rappresentare il dinamismo nefasto e malvagio di ogni forma di abuso, sessuale, di potere e di coscienza: la figura di Davide. Il re israelitico viene seguito nella sua progressiva immersione nel peccato; il peccato dilaga nella sua vita: dall’accidia alla lussuria, dall’adulterio all’inganno, dall’abuso di potere alla menzogna… come in una catena che non pare avere un termine. Non si tratta più della caduta del peccato, da cui l’uomo può risollevarsi mediante il pentimento sincero e l’affidamento alla misericordia di Dio; si tratta qui della corruzione, cioè di quella condizione spirituale in cui la coscienza è stordita e intorpidita, annebbiata dall’abitudine a peccare, paralizzata e incapace di distinguere il bene dal male. Qui si cita, in maniera adatta al contesto, un brano densissimo di Gaudete et exsultate, 164.

La corruzione dilaga, dice il papa, nei ministri della Chiesa, quando – commettendo come una sorta di reato di “peculato spirituale” – si appropriano di “cose” che non appartengono loro e che essi stessi dovrebbero al contrario servire: le cose sante del Signore, che non sono altro che il popolo di Dio e la sua santificazione. Non dovrà più accadere, scrive Francesco, che i casi di abusi siano affrontati con superficialità, leggerezza, pressappochismo, impreparazione… E non si dovranno accusare i media di ostilità pregiudiziale nei confronti della Chiesa, nel momento in cui rivelano la veridicità delle accuse: anzi, essi diventano quasi strumenti di conversione per la Chiesa, posta davanti alla verità dura e amara di abusi e delitti commessi da propri membri. La Chiesa ha bisogno di odierni Natan: di profeti, cioè, che come accadde a Davide mostrino ai consacrati da quale dignità ministeriale essi siano caduti e quale giudizio spetti loro.

Due frasi collocate agli estremi del discorso del papa offrono la chiave di lettura di tutta l’allocuzione alla Curia romana. Si legge in testa al discorso: «Il Natale è la festa che ci riempie di gioia e ci dona la certezza che nessun peccato sarà mai più grande della misericordia di Dio, e nessun atto umano potrà mai impedire all’alba della luce divina di nascere e di rinascere nei cuori degli uomini»; mentre in conclusione si dice: «la forza di qualsiasi Istituzione non risiede nell’essere composta da uomini perfetti (questo è impossibile) ma nella sua volontà di purificarsi continuamente; nella sua capacità di riconoscere umilmente gli errori e correggerli; nella sua abilità di rialzarsi dalle cadute; nel vedere la luce del Natale che parte dalla mangiatoia di Betlemme, percorre la storia e arriva fino alla Parusia». Questa luce percorre l’intero discorso, anche quando l’attenzione si appunta sugli abusi commessi ai danni dei piccoli. Ogni luogo e ogni momento deve poter essere raggiunto dalla grazia esigente di Betlemme, che chiede di respingere ogni opera di tenebra e di abbracciare la luce della salvezza. Questa è in fin dei conti la storia della casta meretrix, dell’Ecclesia semper reformanda: della Chiesa che necessita ogni giorno di conformarsi sempre più al proprio Capo.

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Francesco Vermigli

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