Trump e Gerusalemme — Una situazione complessa e complicata

gerusalemme_moviedi Mario Alexis Portella La decisione del Presidente Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, dà seguito alla legge statunitense del 1995 che riconosceva questa città come capitale dello Stato di Israele. La sua applicazione era stata rinviata di sei mesi in sei mesi dai presidenti americani — da Bill Clinton fino a Barak Hussein Obama — proprio per l’importante valore geopolitico di un simile atto. Trump, dopo aver ricevuto il consenso dalle due camere legislative, ha giustificato la sua decisione affermando: «È ora di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, è l’inizio di un nuovo approccio al conflitto israelo-palestinese. Israele è uno stato sovrano che ha il diritto, come ogni altro Paese, di decidere la sua capitale. Essere consapevoli di questo è una condizione necessaria per raggiungere la pace». 

Questo provvedimento di Trump non poteva non suscitare polemiche ed ostilità, perché ritenuto una violazione dello status quo formalizzato col Trattato di Berlino del 1878, che aveva proclamato Gerusalemme luogo sacro per gli ebrei, i cristiani ed i musulmani i quali avrebbero dovuto fruirne senza discriminazione alcuna, e successivamente, caduto l’Impero Ottomano, confermato dalla Gran Bretagna che esercitava il protettorato sulla Palestina (1920-1948) ed infine dall’Accordo Fondamentale siglato nel 1993 tra la Santa Sede e Israele, in cui gli Israeliti promisero di osservare lo status quo. Tale status quo, ricordiamo, ha la sua origine addirittura nel 1192 quando il Sultano Saladino assegnò, anche per porre fine alla rivalità tra le varie confessioni cristiane che ne richiedevano l’uso esclusivo, la responsabilità di aprire il portone della Chiesa del Santo Sepolcro a due famiglie musulmane. Ciò nonostante, gli ebrei da oltre tremila anni considerano Gerusalemme la loro capitale per ragioni religiose, culturali e politiche. Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 68 d.C., e la conseguente dispersione del popolo ebraico, per il popolo eletto il ritorno a Gerusalemme è rimasto sempre un punto fermo, un fine da raggiungere, essendo la Città Santa l’antica capitale del suo Regno. I palestinesi, che costituiscono circa un terzo della popolazione della città — inclusa una minoranza cristiana — la rivendicano come la capitale dello Stato a cui aspirano. Essa per i palestinesi musulmani ha assunto un autentico valore simbolico, una dimensione religiosa essenziale per la presenza della Spianata delle Moschee, nella città Vecchia, da dove il profeta Maometto, secondo i racconti folcloristici, venne assunto in cielo: perciò è il terzo luogo santo per gl’islamici, insieme a La Mecca e Medina.

La scelta di Trump è stata condannata dalla Comunità Internazionale, specificamente dalla maggioranza degli stati membri delle Nazioni Unite, inclusa la Sede Apostolica, ed anche dai vescovi cattolici orientali ed ortodossi che vi vedono ulteriori motivi di divisioni in quei territori senza pace.

Prima di sbilanciarsi a giudicare se la decisione Trump sia giusta o meno, bisogna chiarire due punti fondamentali sul piano giuridico. In primo luogo, non rientra nei poteri di giurisdizione delle Nazioni Unite o di qualsiasi altro ente politico, anzi li travalica, stabilire ciò che una nazione sovrana può e non può riconoscere nella piena autonomia delle sue competenze. Se la Turchia, per esempio, dovesse riconoscere Gerusalemme Est come capitale della “Palestina”, l’ONU nulla potrebbe decidere pro o contra. (Naturalmente, la maggior parte dei membri delle Nazioni Unite applaudirebbe una simile mossa).

In secondo luogo, la Comunità Internazionale dimentica o finge di dimenticare che è stata la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del dicembre 2016 — voluta dal presidente Obama — a cambiare lo status quo di Gerusalemme ed ha così reso più complicati gli sforzi per conseguire un già difficile compromesso sulla pace. Prima di questa risoluzione improvvida, il Muro Occidentale di Gerusalemme, il quartiere ebraico e le strade di accesso all’Università Ebraica e all’Ospedale Hadassah erano ampiamente riconosciuti di pertinenza di Israele, o, nel peggiore dei casi, come territorio oggetto di contestazione. Tutti sapevano che qualsiasi accordo di pace avrebbe inevitabilmente riconosciuto che queste aree storicamente ebraiche erano una parte integrante di Israele. Di certo non furono illegalmente occupate da Israele, così come, al contrario, Bettlemme era stata illegalmente occupata dall’Autorità Palestinese. Sia Gerusalemme che Bettlemme erano state inizialmente considerate parte di una zona internazionale dalle Nazioni Unite quando il mandato britannico fu diviso in due stati per due popoli — una decisione che fu accettata dagli ebrei e respinta da tutte le nazioni arabe e dagli arabi palestinesi della zona che rifiutavano di riconoscere la legittimità dello Stato di Israele.

Contravvenendo agli accordi dell’armistizio del 1949, la Giordania non permise agli ebrei di accedere ai loro luoghi santi o al cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi. Anche agli arabi-israeliani fu negato l’accesso alla moschea di al-Aqsa e alla Cupola della Roccia. I cristiani, a loro volta, che, a differenza degli ebrei, avevano accesso ai loro luoghi santi, dovettero anch’essi subire restrizioni secondo la legge giordana: furono, infatti, ad es., stabiliti dei limiti al numero di pellegrini a cui consentire l’ingresso nella Città Vecchia e a Bettlemme nei periodi di Natale e Pasqua. Alle associazioni di carità cristiane e alle istituzioni religiose fu vietato l’acquisto di beni immobili a Gerusalemme, e le scuole cristiane furono assoggettate a severi controlli: dovevano insegnare in arabo, restar chiuse ogni venerdì — il giorno santo musulmano — e insegnare a tutti gli studenti il ​​Corano. Allo stesso tempo, non fu permesso di distribuire materiale religioso cristiano ai seguaci di altre religioni.