di Stefano Tarocchi • Nel numero scorso ho affrontato il formarsi del corpo delle lettere di san Paolo e la loro diffusione. Ora, vorrei fare emergere l’importanza della lettera ai Romani. Si tratta dell’unica lettera che l’apostolo indirizza ad una comunità non fondata da lui stesso, mentre, alla fine del suo annuncio evangelico in Oriente, si trova a dover risolvere il confronto con la chiesa di Gerusalemme nel suo diritto di annunciare legittimamente il Vangelo alle chiese di origine pagana.
Scrive Paolo: «fui impedito più volte di venire da voi. Ora però, non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna, e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza. Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai santi di quella comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti, avendo partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un servizio sacro anche nelle loro necessità materiali. Quando avrò fatto questo e avrò consegnato sotto garanzia quello che è stato raccolto, partirò per la Spagna passando da voi» (Rom 15,22-28).
Paolo, in concreto, vorrebbe avere dalla Chiesa di Roma l’avallo a questa missione in Spagna, che molto probabilmente non si è mai realizzata. Ma nel suo scritto, uno dei più densi che ci lascia, egli muove da un’affermazione sconvolgente: Giudei e pagani godono dello stesso diritto davanti al Vangelo, perché partecipano ugualmente della salvezza di Cristo, attraverso la fede: «Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: “Il giusto per fede vivrà” (Rom 1,16-17).
In questi due versetti della lettera ai Romani viene peraltro enunciato il tema centrale della lettera: la manifestazione della «giustizia di Dio». Detto tema verrà sviluppato sotto due aspetti: dapprima al negativo, in 1,1-3,20, centrato sul tema dell’«ira di Dio», e poi, al positivo, in 3,21-31, sulla giustizia vera e propria.
Scrive Romano Penna: «l’affermazione di fondo è che non c’è differenza fra pagani e giudei quanto al peccato, nel quale tutti gli uomini sono accomunati». Nonostante questo egli «non intende tanto dimostrare l’universale peccaminosità degli uomini (…) Ciò che preme a Paolo di dire e che doveva certamente apparire inaudito è che perfino i Giudei non si sottraggono a questa condizione e che perciò essi non hanno titoli particolari da accampare davanti a Dio e agli altri uomini, tali da costituirli in una condizione religiosa privilegiata». Di fatto Giudei e pagani godono dello stesso diritto davanti al Vangelo, perché partecipano ugualmente della salvezza di Cristo, attraverso la fede (cfr. 1,16-17).
Detto questo, vorrei indirizzare lo sguardo alla Dichiarazione congiunta luterano-cattolica sulla dottrina della giustificazione, pubblicato nel 1999 con la firma del card. Joseph Ratzinger, quasi ad anticipare la commemorazione dei cinquecento anni della Riforma di Martin Lutero, datata al 1517.
Tale testo pur movendo dall’affermazione che «nelle Lettere paoline il dono della salvezza è evocato in diversi modi: fra altro, come «liberazione in vista della libertà» (Gal 5,1-13 ; cfr. Rom 6,7), «riconciliazione con Dio» (2 Cor 5,18-21 ; cfr. Rom 5,11), «pace con Dio» (Rom 5,1), «nuova creazione» (2 Cor 5, 17), come «vita per Dio in Cristo Gesù» (Rom 6,11.23) o «santificazione in Cristo Gesù» (cfr. 1 Cor 1,2 ; 1,30 ; 2 Cor 1,1)», aggiungeva che «tra queste descrizioni ha un posto di spicco quella della «giustificazione» del peccatore nella fede per mezzo della grazia di Dio (Rom 3,23-25), che è stata più specialmente messa in evidenza all’epoca della Riforma».
E così proseguiva: «Paolo descrive il Vangelo come forza di Dio per la salvezza dell’uomo in preda al potere del peccato: come messaggio che proclama la «giustizia di Dio che si rivela mediante la fede e in vista della fede» (Rom 1,17-18) e dà la «giustificazione» (Rom 3,21-31). … Nella morte e risurrezione di Cristo si radicano tutte le dimensioni della sua opera salvifica, poiché egli è il «nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25). Tutti gli esseri umani hanno bisogno della giustizia di Dio, poiché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rom 3,23; cfr. Rom 1,18 – 3,20; 11,32; Gal 3,22)» (Dichiarazione congiunta 9-10).
Lo stesso tema della «giustificazione», viene ripreso nel medesimo documento approfondendo la distinzione operata dalle teologie luterana e cattolica: «secondo il modo di comprendere luterano, Dio giustifica il peccatore solo nella fede (sola fide). Nella fede, l’uomo confida totalmente nel suo Creatore e Salvatore ed è così in comunione con lui. Dio stesso fa scaturire la fede suscitando tale fiducia con la sua parola creatrice. Poiché questo agire di Dio è una nuova creazione, essa riguarda tutte le dimensioni della persona e conduce a una vita nella speranza e nell’amore. Pertanto, l’insegnamento della «giustificazione soltanto per mezzo della fede» distingue, senza tuttavia separarli, il rinnovamento della condotta di vita, necessariamente conseguenza della giustificazione, e senza la quale non vi sarebbe la fede, dalla giustificazione stessa» (Dichiarazione congiunta 26).
E, comunque, «anche secondo il modo di comprendere cattolico la fede è fondamentale per la giustificazione; infatti, senza di essa non può esservi giustificazione. L’uomo, in quanto colui che ascolta la parola e crede, viene giustificato mediante il battesimo. La giustificazione del peccatore è perdono dei peccati e realizzazione della giustizia attraverso la grazia giustificante che fa di noi dei figli di Dio. Nella giustificazione i giustificati ricevono da Cristo la fede, la speranza e l’amore e sono così accolti nella comunione con lui. Questa nuova relazione personale con Dio si fonda interamente sulla sua misericordia e permane dipendente dall’azione salvifica e creatrice di Dio misericordioso, il quale rimane fedele a sé stesso e nel quale l’uomo può quindi riporre la propria fiducia. Pertanto, l’uomo non potrà mai appropriarsi della grazia giustificante né appellarsi ad essa davanti a Dio» (Dichiarazione congiunta 27).
Paradossalmente quell’interpretazione di Paolo che ha potuto dare origine a cammini diversi, è il punto da cui riprendere un comune cammino cristiano, tanto più attuale in tempi come i nostri. Prendendo in prestito, non a caso, la liturgia della festa dell’esaltazione della croce, si potrebbe concludere che «donde sorgeva la morte di là risorge la vita».