di Dario Chiapetti • La lettura del testo di Marko Ivan Rupnik, Secondo lo Spirito. La teologia spirituale in cammino con la Chiesa di Papa Francesco (LEV, Città del Vaticano 2017, 191 pp.) – facente parte della collana La teologia di papa Francesco, con la quale, come scrive Roberto Repole nella Prefazione, si intende presentare le linee principali del pensiero teologico di Bergoglio – ha richiamato degli ambiti della mia esperienza tali da suggerirmi riflessioni che espongo di seguito.
Quando si opera in cantiere, per la messa in piedi di un oggetto architettonico, innanzitutto, occorre sempre tenere sott’occhio il progetto – potremmo dire, il telos – dalla scala più grande a quella più piccola: strutture, impianti, materiali, ecc. Secondo poi, si è in tanti – architetti, geometri, ingegneri, geologi, tecnici, maestranze, committenti, specialisti vari e così via – ognuno con i propri specifici e insostituibili compiti. In terzo luogo, si è in relazione con le altre figure le quali realizzano il proprio compito – diciamo anche la propria vocazione – portando a compimento la realizzazione dell’opera altrui, partecipando al conseguimento della vocazione dell’altro. Si ha, in tal modo, il corpo architettonico, che più o meno velocemente prende forma, ma anche il corpo di chi lavora alla sua costruzione. E ci si accorge che il corpo architettonico si costituisce secondo il suo progetto nella misura in cui esso fa tutt’uno con il corpo di chi vi opera. Ognuno mette se stesso in quei due corpi e in questi esso è costituito nella sua identità. Infine, questi due corpi si realizzano mediante l’interazione di molteplici termini: la materia, la persona, l’alterità, la relazione, il progetto. La persona, mediante la relazione con un’alterità, dà forma alla materia e la configura secondo il suo progetto.
La dinamica della realizzazione del corpo architettonico che si invera in cantiere è, a ben vedere, la stessa del corpo mistico-ecclesiale che si invera, massimamente, nella liturgia. Non a caso la vita liturgico-rituale avviene in luoghi, architetture, e la Scrittura fa ampio ricorso a immagini architettoniche per illustrare il mistero sacramentale dell’unione divino-umana. Ebbene, se il corpo architettonico non è né oggetto d’adorazione né contenitore, la liturgia, e il sacramento che in essa è celebrato, non è né rituale né rubrica. Mi concentro ora sulla seconda. La liturgia è – come argomenta Rupnik – quel luogo di inveramento del corpo di Cristo, di inserimento dell’esistenza individuale dell’uomo in un’esistenza filiale in rapporto al Padre, inserimento che può avvenire solo nel Figlio, Colui che vive in modo pieno tale filialità, e per mezzo dello Spirito Santo, la relazione personale-comunionale divina stessa. E con ciò la liturgia risulta essere quel luogo relazionale, l’azione stessa della comunicazione del tropos, del modo d’essere, di Dio che – come ancora Rupnik richiama con chiarezza dall’insegnamento dei Padri Cappadoci e di Massimo il Confessore – è ontologico-personale-comunionale: hypostasis. La materia, l’acqua, il pane, il vino, l’olio, ma anche, e soprattutto, la sarx e il soma di coloro che, convenuti nella liturgia celebrano il sacramento, non sono quindi solo mezzi di trasmissione di tale modo d’esistenza per raggiungere il pneuma umano ma soggetti della dinamica relazionale divino-umana, chiamati a intervenire in essa e passare, così, nell’evento della croce, dal modo d’esistenza della natura ferita dal peccato, cioè individuale, a quello di Dio, comunionale. Materia e spirito, nel Figlio, si esprimono, così, l’una nell’altro e viceversa, realizzando quell’esistenza comunionale, propria di Dio, nella natura umana. È l’accoglienza di questa vita comunionale divina – che è, quindi, essenzialmente ecclesiale-sacramentale – che realizza la vita spirituale, ossia, fondata nello Spirito Santo, la vita comunionale tra Padre e Figlio, l’agape che costituisce il principio ontologico fondamentale.
Ebbene, tutto ciò che è porta in sé, in modo più o meno compiuto, il principio comunionale che, proprio in quanto tale, necessita dell’alterità dell’A/altro, e della comunione con Q/questi, per trovare compimento. Questa esistenza comunionale con, in e per l’altro, esistenza che si comunica sempre e sempre più diffusamente e pienamente, rivela così la trinitarietà dell’essere e la sua simbolicità. L’evento-azione, architettonico come sacramentale – costituentesi sui termini di materia, persona, alterità, relazione, progetto -, rappresenta uno “strato” dell’essere della realtà fondata nel principio ontologico, così come risulta svelato dal modo d’esistenza di Dio: la comunionalità trasformante. In tale straticità sta la simbolicità dell’essere. Su questo aspetto si basa l’indirizzo teologico che recupera il simbolo quale categoria fondamentale con cui leggere il dato fenomenico come quello ontologico, prospettiva che, da L.-M. Chauvet (1942-) in poi, delinea così una nuova comprensione della realtà sacramentale – recuperando l’orizzonte interpretativo-esperienziale dei Padri Orientali – e, da essa, di tutto il mistero di Dio e dell’uomo. In tale orizzonte, la simbolicità dell’essere indica quella strutturazione dinamica di tutto ciò che è per cui ogni suo aspetto – non solo rimanda a, ma – ne rivela un altro in esso contenuto, svelando così quel principio ontologico dell’unità per cui ogni realtà (a motivo del suo essere “figliforme”) è in relazione ad un’altra per mezzo di un’altra ancora (il Figlio) e, ancor di più, in cui, di ogni realtà, è tale sussistere nell’unità che ne realizza e rivela l’identità.
Simbolicità dice comunionalità, e dice ciò non su un piano accidentale-convenzionale ma ontologico, come avevano compreso e sostenuto i Padri Cappadoci. È questo ciò di cui l’uomo può fare esperienza nell’azione materica-spirituale come quella architettonica o, ancor di più, liturgico-sacramentale in cui i termini sopra menzionati – materia, persona, alterità, relazione, progetto – interagiscono tra di loro al modo della vita nuova in cui essi sono innestati – la vita in Dio, di Dio, comunionale -, la quale può essere solo accolta e trasfigura – è questo il centro focale della riflessione del gesuita – l’esistenza del destinatario, dell’io-individuale, al modo del dono: l’io-comunionale, la persona.