La «dolcezza della misericordia» fonte del perdono ed esigenza della giustizia

L’aequitas è un concetto antico di cui già Aristotele ne parla nell’Etica Nicomachea quando afferma che se un fatto non rientra nella generalità della legge è giusto che la lacuna sia corretta come vi avrebbe provveduto lo stesso legislatore se lo avesse previsto. Nel diritto romano l’aequitas non era qualcosa di codificato, ma costituiva il modo di realizzare il diritto secondo la definizione che ne diede Celso come ars boni et aequi. Nell’antica Roma l’amministrazione della giustizia a opera del pretore consiste nel fare scelte in base al criterio dell’equità con la tecnica, cioè l’ars, di perseguire il bonum come un sentire eticamente orientato, e l’aequum come ciò che è concretamente giusto. In questo senso si capisce cosa significhi dura lex, sed lex, ovvero che aver rispettato rigidamente una regola non significa aver realizzato concretamente la giustizia. Nell’esperienza giuridica romana il fondamento dell’aequitas è di tipo naturale, ma non limitandosi a un mero procedimento deduttivo dal generale al particolare. L’aequitas ha per fondamento un modo di sentire il diritto come ars boni et aequi traducendo i termini astratti della regola di diritto in esigenza concreta di giustizia.

Nella Chiesa la funzione di amministrare la giustizia includendovi la possibilità dell’attenuazione della pena fino al perdono è segnata dal fine salvifico. La stretta giustizia come applicazione formalistica della legge potrebbe configurarsi come violazione della giustizia. Il modello di perfezione della giustizia divina deve essere il criterio del giudice.