di Stefano Tarocchi • È indubbio che il discorso pronunciato da papa Francesco il 10 novembre scorso al mattino nella cattedrale fiorentina sia stato un discorso fortemente significativo, al di là del convegno ecclesiale che lo ha originato: lo prova la fretta con cui lo si è archiviato, al di là della prima accoglienza entusiastica, e anche dei primi distinguo con cui i soliti noti lo hanno accolto, oppure lo hanno ignorato (o fatto ignorare…). Peccato, perché esso è una delle chiavi per entrare nel rapporto tra Francesco e quella chiesa italiana, della nazione da cui trae origine la sua famiglia, ma che può guardare alla realtà italiana con uno sguardo realmente universale e non con quello che tradizionalmente si è attribuito al papa, in forma più “poetica” che teologica, più “scolastica” che concreta.
Francesco ha cominciato lanciando uno sguardo al «volto della misericordia” del Cristo rappresentato nell’affresco della cupola di S. Maria del Fiore, cattedrale ma anche chiesa che racchiude l’essenza stessa della città e da questa guarda all’Italia e al mondo. Secondo il papa l’umanesimo ha pienamente a che fare con i «sentimenti di Cristo Gesù», secondo l’inno paolino della lettera ai Filippesi. Francesco ne sceglie tre: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine.
«L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra: Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6)». E ancora cita l’apostolo Paolo “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3)».
Quindi Francesco aggiunge che «un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4)”. … Più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio». È il rinchiudersi «nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli (Evangelii gaudium, 49)».
Un terzo sentimento analizzato dal papa è quello della beatitudine: «il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino» per «arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina» che troviamo anche «nella più umile della nostra gente, … è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre».
«Questi tre tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste». Ed ha aggiunto: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (EG 49).
Da qui nascono le possibili tentazioni per chi accoglie il Vangelo nel nostro tempo: Francesco ne ha presentate due. I discepoli di Gesù dovranno anzitutto guardarsi dalla tentazione del pelagianesimo, che «spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata… con l’apparenza di un bene». Esso «ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte» … e «ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore… non nella leggerezza del soffio dello Spirito». E Francesco aggiunge che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare… La riforma della Chiesa – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo» e «non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito».
La seconda della tentazione è quella dello gnosticismo, che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (EG 94)». Il papa spiega che «la differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo». Ed ha aggiunto che «la Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone», tratto che ha fatto storcere la bocca a quanti non conoscono la fine penna di Guareschi – su cui ha scritto il direttore – ma solo la sua trasposizione cinematografica.
In conclusione riprendo quello che lo stesso Francesco ha detto, riassumendolo in quattro punti: 1) «ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi»; 2) «a tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune. L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 42)». Questi due punti si aprono in altri due: 3) «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti»; 4) «Cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni».
Sarà bene che la chiesa italiana si metta in moto per accogliere la sfida allo stesso tempo pressante (e misericordiosa) che il papa le ha lasciato: non è un caso che proprio l’invito ad approfondire l’Evangelii gaudium sia una garbata ma ferma presa d’atto che troppi ambienti ecclesiali se ne siano tenuti a doverosa distanza anziché raccoglierne le sfide.