di Francesco Vermigli · Una montagna spaccata e silenziosa a picco sul mare tra il Lazio e la Campania, una catacomba buia e umida nelle campagne dell’Urbe, le strade sudicie e brulicanti della stessa città dei papi, i canti e le preghiere, i palazzi gentilizi, le taverne e le chiese, le messe celebrate e gli scherzi fatti e ricevuti…: sono i luoghi, le occasioni e i momenti della vita di un uomo di origine fiorentina, ben presto divenuto romano d’adozione. Un uomo, ma si direbbe meglio un santo: secondo la testimonianza del popolo di Roma, appunto, che diceva che il papa quella lontana mattina del 12 marzo 1622 (quattrocento anni fa… praticamente) “aveva canonizzato quattro spagnoli e… un santo”. Gli spagnoli erano, nientemeno…, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa d’Avila e Isidoro detto l’“Agricoltore”, ma il solo santo (il solo santo… almeno per il popolo di Roma) era proprio lui: Filippo Neri, detto “Pippo Bòno”.
Ma nell’occasione dei quattrocento anni dalla sua canonizzazione non vogliamo tanto ripercorrere la sua vita convulsa e originale, che venne a svolgersi in uno dei tornanti più rilevanti della storia della Chiesa. Non vogliamo ricordare tanto la sua biografia fatta di miracoli e di esplosioni di gioia; quella gioia che grazie al suo stile inconfondibile si spandeva tra i vicoli della città papale controriformistica, come si diffonde il buon odore della fede cristiana. Non vogliamo tanto ricordare la sua passione per l’educazione dei fanciulli, specialmente dei più emarginati, o per il recupero dei più poveri alla dignità del lavoro e alla vita sociale. Non tanto vogliamo ricordare Filippo Neri per questo, che pure qui all’inizio abbiamo voluto almeno accennare: lo vogliamo piuttosto ricordare per la testimonianza di comunione presbiterale che ha consegnato alla storia della Chiesa e alla storia del ministero ordinato più in particolare. Una testimonianza particolarmente cara in questa nostra epoca; a dir la verità.
In altri termini, non vogliamo tanto risalire al complesso della spiritualità della Congregazione dell’Oratorio, ma puntare lo sguardo direttamente sulla comunione presbiterale, per poi passare ad alcune implicazioni connesse con la particolare forma di comunione presbiterale prevista dall’ispirazione oratoriana.
Innanzitutto, notiamo come non si tratti di una comunione legata alla professione dei voti, come accadrebbe in una qualsivoglia congregazione religiosa: ed è questo, a ben vedere, un fatto capitale. Ogni congregazione dell’Oratorio – che giuridicamente gode di autonomia rispetto alle altre – prevede la comunione di preti (ma anche fratelli laici… dalla qual cosa si dovrebbe forse meglio parlare di comunione ecclesiale più in generale) fondata sulla volontà di stare assieme e di camminare assieme. Da questo impegno che viene preso di stare in comunione assieme, deriva – come in una naturale esondazione – che lo stesso celibato è pensato come un impegno, una promessa, non come il frutto di un voto.
Il quadro che esce da questa brevissima presentazione di un punto capitale della spiritualità oratoriana, è quello di un plesso di questioni che, come notavamo sopra, non pare di piccola importanza per l’oggi della Chiesa. Ad esempio, la questione della comunione presbiterale, che è presente quasi fin dall’origine della storia della Chiesa: si pensi ad Agostino e alla comunità di preti che vivono nell’episcopio, come familiari del vescovo. Se però portata alla nostra epoca la questione della comunione presbiterale assume un carattere che vorremmo definire “profetico”, se il termine non avesse subito uno svilimento e un annacquamento dall’abuso degli ultimi decenni (quanti “profeti” nella Chiesa postconciliare! ma se tutti profeti, nessun profeta?). Certo condotta nella nostra epoca, la tematica appare in singolare controtendenza rispetto alla generale temperie individualistica dell’evo moderno (e anche della Chiesa di oggi?). Di fronte alla disgregazione e all’atomizzazione della nostra società post-ideologica, rivendicare uno spazio per la comunione presbiterale e più in generale ecclesiale significa porre una testimonianza contraria alla china del tempo.
Allo stesso tempo, la questione del celibato – che tante energie ha assorbito negli ultimi decenni di discussioni intra-ecclesiali e non solo interne alla Chiesa – ricondotta all’ambito della comunione volontaria nel presbiterato acquista una valenza nuova. Perché certamente continua ad essere pensata come un’implicazione personale e – altrettanto certamente – continua ad essere legata alla carità pastorale del presbitero: ma questa dimensione celibataria è così anche concepita all’interno di un ministero non più privo di legami relazionali non solo occasionali con gli altri preti, ma costruito attorno a legami costitutivi e radicali tra di loro.
Parlare di san Filippo Neri certamente significa recuperare un tempo e uno stile di secoli fa. Ma ci pareva che l’eredità che il santo della gioia e dell’educazione e dello stile evangelico ha lasciato alla Chiesa, abbia da dire non poco alla comunità dei credenti di oggi; in particolare a coloro che svolgono il ministero tra i fratelli e per i fratelli.