di Francesco Vermigli · «Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credono più a nulla, credono a tutto»: sono le parole, celebri, attribuite a Gilbert Keith Chesterton; scrittore (I racconti di Padre Brown) e polemista (L’uomo che fu Giovedì) geniale e pieno di un humour perfettamente inglese, convertitosi da adulto al cattolicesimo. A distanza di oltre ottanta anni dalla morte, verrebbe da esclamare: quanta verità dice quella frase sull’uomo del terzo millennio! Bande irredimibili di terrapiattisti e ufologi di bassa lega scorrazzano nel nostro mondo; gente che ad ogni notizia viene travolta da un riflesso complottista, modello cane di Pavlov; spiritisti e maghi, ciarlatani e imbonitori di ogni sorta e genere, i cui deliri vengono amplificati dai social… e ritornano in mente le parole di Umberto Eco: «I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli, prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino… ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel».
Ora a voler considerare la cosa a tutto tondo, se l’uomo di oggi (della prima metà del Novecento e quello di oggi, tanto di più) crede a tutto – alla prima idea balzana, cioè, e al primo che si alza a dirla – è perché l’uomo del primo Novecento e del terzo millennio – sia quel che sia… – vive in un contesto segnato da un deficit di credibilità. Perché credere è un atto mio, personale, che mi riguarda; certamente. Ma credere ha bisogno di un contesto che susciti la fede, la favorisca, la faccia vedere capace di attrattiva. Per credere abbiamo, cioè, bisogno di persone che rendano – con un gioco di parole – credibile il credere.
A questo deficit di credibilità, alla questione della fede nel mondo secolarizzato e post-ideologico europeo (ma anche post-metafisico) si volge il pensiero di un teologo che non scopriamo certo oggi, ma che da diversi anni (ormai decenni) si implica nel tema della credibilità nel contesto della post-modernità. Mi riferisco al gesuita Christoph Theobald, docente di teologia fondamentale e teologia dogmatica al Centre Sèvres a Parigi, che ha nella sua stessa biografia i segni inequivocabili dell’Europa, essendo nato tedesco a Colonia, ma cresciuto in Francia. Perché accanto al suo interesse per la recezione teologica e pastorale della medesima assise conciliare (si vedano il monumentale La réception du Concile Vatican II I: Accéder à la source del 2009 e il più agile Le concile Vatican II: quel avenir? del 2015, entrambi tradotti in italiano da EDB), si rintracciano nella sua ricerca le questioni più impattanti sul contesto della fede cristiana nell’Europa odierna. Si pensi soprattutto a Le christianisme comme style. Une manière de faire de la théologie en postmodernité del 2007 (pubblicato in due volumi in traduzione italiana nel 2009) e al recente Christentum als Stil. Für ein zeitgemäßes Glaubensverständnis in Europa del 2018 (tradotto in italiano nel 2021, per i tipi della Queriniana: La fede nell’attuale contesto europeo. Cristianesimo come stile).
In verità, i due ambiti (quello della ricezione del concilio e quello circa la fede nel contesto europeo) sono chiaramente intrecciati in Theobald. Lo dichiara lui stesso, quando dice che la fortuna e il futuro del Vaticano II è il concetto stesso di pastoralità. O meglio, che il futuro del Concilio consiste in una teologia che abbia assunto e accolto al proprio interno la dimensione pastorale; come dimensione intrinseca alla teologia, che mira all’inculturazione entro ogni possibile contesto umano.
Vi si lega a questo punto, quasi senza ulteriori mediazioni, il concetto di “stile”; concetto cardine della teologia di Theobald. Un concetto che egli deriva dalla fenomenologia di Merleau-Ponty e che dichiara che di un’opera – e per estensione di una persona – è decisiva la concordanza tra la forma e il contenuto. Decisivo per la fede cristiana è ritornare allo stile di Gesù, che egli ha manifestato negli incontri avuti con le persone le più varie. Se questo è decisivo, l’interesse sarà rivolto non tanto alla fede come elenco di dottrine, ma alla sua dimensione relazionale e comunicativa. Il tema della credibilità si innesta qui: nell’unità di gesti e parole di un uomo, Gesù, che si fa presente per chiunque, e lascia lo spazio all’iniziativa di chiunque. La fede nasce da questa dinamica, quasi un gioco di specchi: di credibilità personale che nasce dallo svuotamento del sé e che in Gesù è assoluto (la “santa ospitalità” di Gesù che lascia spazio all’altro) e la scelta per la fede di colui che è incontrato da colui che è e sommamente credibile e sommamente ospitale.
Nell’attuale contesto europeo, dice Theobald, la crisi non è in primo luogo crisi di fede: è piuttosto crisi di fiducia. Chiama “fede nella vita”, quella che nasce nell’uomo moderno specie in quelle che la sociologia religiosa chiama disclosure situations: le “situazioni di apertura” nelle quali l’uomo moderno liquido e frammentato, coglie almeno per un momento un senso globale della propria vita e del mondo intero. In conclusione del nostro articolo che abbiamo costruito attorno al pensiero di Theobald, notiamo come per questa “fede nella vita”, per questa riacquisita fiducia dell’uomo moderno un ruolo non marginale, anzi decisivo debba spettare proprio a coloro che si dicono discepoli di Gesù, colui che è il sommamente ospitale e quindi il sommamente credibile.