In memoria del Prof. Paolo Grossi, itinerario intellettuale del giurista storico del diritto
di Francesco Romano • Lo scorso 4 luglio la notizia della scomparsa del Prof. Paolo Grossi ci lasciava attoniti suscitando cordoglio che rapidamente si diffondeva e coinvolgeva intimamente quanti per diverse vie lo avevano conosciuto. L’età avanzata non attenuava l’emozione per il ferale evento, inatteso, ancorché prevedibile.
La sua lunga esistenza piena di indiscussi successi come giurista, cattedratico, maestro di vita accademica e umana per numerose generazioni di giovani, lo ha visto approdare al culmine della sua carriera alla Corte Costituzionale per il novennio 2009-2018, dapprima come giudice e poi come Presidente. Ultimo e grande coronamento è stato l’affetto che centinaia di persone hanno voluto rivolgergli partecipando alle esequie fino a riempire la Basilica della Santissima Annunziata a Firenze, come estremo saluto, segno di vicinanza e riconoscenza.
L’ultima opera della vasta raccolta bibliografica di Paolo Grossi si intitola “L’invenzione del diritto” del 2017, dove la “Premessa” reca il titolo “Ultima verba”, “ultima” nel significato di “estrema” come se volesse corrispondere, afferma il Grossi, “allo stadio assai avanzato della mia vita (ottantaquattro anni!) e alla probabilità di essere questo il mio ultimo libro. Serenamente non posso escluderlo”. “Ultima” anche in riferimento alle riflessioni degli ultimi anni alla Corte Costituzionale e “sollecitate dalla intensa familiarità con il testo costituzionale e, più ampiamente, con l’intera dimensione costituzionale, anche inespressa, ma leggibile nel complesso delle radicazioni più profonde dell’ordine giuridico italiano”.
Il diritto quale risultato di una “invenzione” diventa il fulcro della riflessione del Grossi. Il diritto percepito non come qualcosa che si crea da parte del potere politico, ma qualcosa che si deve cercare nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nella identità più profonda di una coscienza collettiva. Il diritto come ordinamento vuol dire che bisogna leggere nelle trame della società civile, che occorre comprendere la giusta realtà. Ordinare è leggere e comprendere sì che il risultato sia l’ordine che è armonia di diversità, valorizzazione di una esperienza. Contrapposta a una visione monista e statalista dell’ordinamento giuridico, Grossi insiste nell’affermare che l’ordine è pluralistico.
È la teoria dell’ordinamento giuridico, sulla scia del giuspubblicista Santi Romano, allievo di Vittorio Emanuele Orlando. Secondo Santi Romano il diritto ha la sua genesi nella società e per questo, affermava il Grossi, se il diritto vuole ordinare la società deve rendersi conto “di quel che bolle in pentola”, in quella piattaforma magmatica, e rispettare le sue articolazioni. Diritto è qui ritrovato nel suo momento nativo che è nel “grembo materno” della società, materno perché plurale. Il diritto è una formazione storica nativa, essenziale a ogni gruppo sociale. Il diritto è una congerie di valori che si coagulano in basso, dobbiamo guardare al diritto da sotto in su, non dall’alto, ovvero “dai palazzi alti del potere”, come il Prof. Grossi soleva plasticamente esemplificare. Ecco la pluralità degli ordinamenti che Santi Romano aveva disegnato. Il rischio è il dogmatismo giuridico che fissa, immobilizza, mentre il diritto ha una storicità, è chiamato a ordinare una società civile in movimento. Il diritto vivente è anche fuori delle norme codificate, da una visione di Stato come fonte esclusiva del diritto, o dalla legge come unica fonte di cognizione del diritto.
Grossi guarda a Romano per la sua concezione del diritto liberato dai vincoli statuali ed elabora una teoria secondo la quale il diritto affonda le sue radici in quella serie di esperienze pratiche mediante cui un gruppo si dà una forma organizzata e separa la propria esistenza come organizzazione da quella transeunte dei propri membri. Lo Stato, quindi, è considerato in rapporto al diritto, al pari di una Chiesa, di una qualsiasi associazione sportiva, e persino di un’organizzazione criminale.
Per Grossi la società è storia nel senso che vive la sua vicenda storica e con la società anche il costume vive la sua vicenda storica per cui si ha materia di cui l’ordinamento giuridico deve ascrivere a sé. Il ‘900 giuridico, come secolo pos-moderno e con tratto specifico, è la riscoperta della complessità e della fattualità del diritto di fronte alla visione imperante del diritto come norma, comando, dello Stato come fonte esclusiva del diritto, della legge unica fonte di cognizione del diritto.
Riprendendo una conferenza di Filippo Vassalli del 1951 dal titolo “Estrastatualità del diritto civile”, viene affermato che, a fronte di una concentrazione del potere dello Stato, la statualità del diritto che si attua nel corso dell’ottocento con la codificazione del diritto e con l’assoggettamento delle società nazionali al diritto posto dagli Stati è espressione di sovranità statuale. Siamo di fronte allo Stato-ordinamento che inizia in Francia con i Codici di Napoleone. Il Grossi afferma che il diritto civile immagazzinato nella legge madre che è il codice, è il frutto di un diritto dopo il secondo momento della rivoluzione francese, quello giacobino, ovvero statalismo, legalismo, assolutismo giuridico, perché fino a quel momento sia il diritto romano sia il diritto comune medievale erano stati sempre all’insegna del pluralismo. Il diritto civile era stato il prodotto dalla società grazie alle consuetudini interpretate e disciplinate da un ceto di avvocati, notai e maestri universitari.
In linea con Santi Romani, Paolo Grossi insiste nell’affermare che il diritto, anche se ci appare proveniente dall’alto, è qualcosa che ha la sua genesi nel sociale, è il sociale che isola certi comportamenti o istituti, e li assume a valori che si coagulano in basso, per questo dobbiamo guardare il diritto da sotto in su.
In un saggio dal titolo “Epicedio per l’assolutismo giuridico” il Grossi indica la strada per arrivare a un vero, autentico pluralismo giuridico con la riscoperta dei fatti come tentativo per evitare che il diritto rinsecchisca, che ci sia quella separazione tra corteccia e linfa vitale che porterebbe alla morte dell’albero giuridico. Il pluralismo giuridico scombina tutto il gioco delle dogmatiche legaliste. I fatti nascono da una coagulazione del sociale e non per opera del legislatore che di sua volontà pesca nel mondo dei fatti e li fa diventare mondo del diritto. Con il diritto ridotto a un insieme di leggi il mondo dei fatti verrebbe condannato alla irrilevanza giuridica.
Lo Stato non può essere l’unico facitore del diritto. Lo Stato è l’ordinamento giuridico prevalente, ma la Repubblica è una realtà “pluriordinamentale” perché il complesso delle leggi non esaurisce la giuridicità.
In una società complessa come quella di oggi il diritto diventa l’unica arma che tenta il salvataggio per la persona umana e per la collettività. Un diritto che non piove dall’alto, ma si trova nelle radici della civiltà e riguarda i suoi valori fondamentali. Il diritto rappresenta l’identità di una coscienza collettiva e riguarda la dignità di tutti, non è una imposizione, un qualcosa calato dall’alto, ma ci coglie nella nostra dimensione umana.
Meno di un anno fa, in una lunga intervista che di fatto si presentava come una nutrita lezione accademica, Paolo Grossi delineava il suo percorso intellettuale all’interno di quel ‘900 giuridico con la riscoperta della complessità e della fattualità del diritto. Il novennio trascorso in Corte porta a completamento il suo itinerario intellettuale dandogli ragione che il percorso intellettuale che lo ha impegnato tutta la vita era giusto. Infatti per Grossi i 139 articoli della Costituzione non esauriscono tutta la dimensione costituzionale, “essi sono come le cuspidi emergenti di un continente per buona parte sommerso”. C’è anche una dimensione costituzionale che si ritrova in quelle radici della società civile in cui certi fatti, certi comportamenti, certi istituti hanno una tale effettività sul piano sociale da prendere la forma di principi giuridici, valori giuridici che diventano principi giuridici fonti di diritti e doveri.
Questa lezione nella forma di conversazione di Paolo Grossi risale a undici mesi fa quando aveva ottantotto anni e mezzo. Colpisce vederlo ancora nel pieno del suo vigore intellettuale, con la solita lucidità che lo ha sempre contraddistinto fino in fondo, e pronunciare la frase “per me la vecchiaia è stata ricchezza!” ricordando come sia giunto in modo del tutto inconsapevole a iniziare nel 1951 gli studi giuridici dopo la maturità classica e come sia approdato in modo del tutto inaspettato nel 2009 alla Corte Costituzionale, senza soluzione di continuità rispetto alla vita intellettuale proseguita ininterrottamente anche dopo il pensionamento accademico quando aveva già settantatré anni.
L’omelia tenuta dall’Arcivescovo di Firenze card. Giuseppe Betori nella messa esequiale, tra le altre profonde riflessioni, ha tratteggiato il profilo del Prof. Paolo Grossi in questo passaggio nel quale egli si sarebbe meglio riconosciuto tra i tanti elogi sinceri che non sono mancati: “Questo sguardo profondo della fede ha permesso al prof. Grossi di imprimere alle sue ricerche uno spessore oltre la parcellizzazione dei saperi, per porre le conoscenze in una cornice capace di farne percepire un significato pieno. Sta qui la differenza tra un intellettuale e un saggio, tra un docente e un maestro, tra un funzionario dello Stato e un servitore del bene comune, testimone di verità e di veracità in grado di offrirci chiarezza e indicarci cammini sicuri. In questa visione dell’umano, in un orizzonte di trascendenza si inserisce il concetto di “inventio” applicato al diritto, realtà che si riceve e non si crea, e che nella nostra Costituzione fonda la priorità storica e logica della persona umana sullo Stato e del diritto sulla legge, nel quadro quindi di una idea fondamentale del diritto non frutto del potere politico o dello Stato, ma prodotto della capacità ordinante della società e della natura intrinsecamente relazionale dell’uomo”.
Fatta questa introduzione per illustrare l’itinerario intellettuale di Paolo Grossi sintetizzato attraverso alcuni spunti che ci vengono offerti da numerose conferenze, fino a quelle più recenti, da lui tenute presso centri accademici come “lectio magistralis” e dai suoi scritti, ripropongo al lettore una mia recensione che feci nel 2018 al suo ultimo libro “L’invenzione del diritto”.
«L’invenzione del diritto» nella recente pubblicazione di Paolo Grossi (F. Romano, Mantello della Giustizia, Recensione del 3 marzo 2018)
di Francesco Romano • Il Prof. Paolo Grossi, illustre cattedratico fiorentino, giurista e storico del diritto, dal 2009 è stato prima giudice e poi Presidente della Corte Costituzionale. Nel mese di ottobre 2017 ha pubblicato un volume edito da Laterza sotto il titolo “L’invenzione del diritto”, intellettualmente stimolante e volutamente provocatorio, nel senso che non può lasciare indifferente il lettore avveduto, ove tra l’altro raccoglie i suoi scritti dell’ultimo decennio, congruenti con il tema introdotto.
Soffermandosi fin dalle prime pagine sul termine “invenzione” che può apparire “di primo acchito decisamente bizzarro”, Paolo Grossi chiarisce subito il significato profondo che esso racchiude nell’ambito della sua riflessione storico giuridica, secondo l’etimologia del verbo latino invenire, nel senso di cercare per trovare qualcosa, reperire. Quindi, il significato di invenzione non come “un artificio, o, addirittura, la falsazione di un fatto reale”. Secondo Paolo Grossi, l’attività del legislatore non rientra nella categoria del creare – naturalmente non stiamo parlando di lex aeterna o di diritto divino rivelato – bensì in quella dell’invenire.
L’ordinamento giuridico non scaturisce come atto creativo dal potere politico, ma è opera di ricerca “nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nella identità più gelosa di una coscienza collettiva”. Interpretando ed esplicitando il concetto del Prof. Paolo Grossi sull’attività inventiva svolta dal legislatore e dal giurista, mi sia umilmente consentito il calzante raffronto con l’attività dello scienziato che non crea, ma scrutando la creazione nelle sue pieghe più intime penetra con la sua osservazione nei fenomeni della realtà percepita, ne decifra l’ordine e ne da definizioni attraverso formule, non da lui create, ma scoperte da inventore, chiamate appunto leggi della fisica, chimica ecc.
Le costituzioni del periodo pos-moderno, pos-weimariano sono la testimonianza più espressiva di questa attività inventiva. Con una bella immagine Paolo Grossi in questo contesto fa riferimento alla Costituzione italiana del 1948 identificandola non come atto creativo dei Padri costituenti, ma “come atto di ragione, quasi che si trattasse di qualcosa già scritto e che i Patres avevano letto e trascritto in un testo” per significare la priorità storica e logica della persona umana sullo Stato e del diritto sulla legge, oltre alla necessità di liberarsi da “ideologie ostative al pieno recupero di un dominante atteggiamento cognitivo”. Nel lungo itinerario di ricerca condotto fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, il Prof. Grossi è approdato, tra gli altri aspetti, all’esigenza di ripensare il ruolo del giurista e l’assetto delle fonti.
L’orientamento preso con decisione è nella direzione del superamento della visione potestativa e del vincolo tra potere politico e produzione giuridica, per fare emergere una visione valoriale del diritto, quindi “un diritto da scoprire nelle radicazioni riposte in un contesto storico, da leggere, da trascrivere in un testo”, senza cadere nell’equivoco di sapore ideologico che in esso debba rimanere cristallizzato. Per questo, il diritto come risultato di una invenzione. La redazione della Costituzione del 1948 è stata “un compito autenticamente inventivo”, riflettendo la dimensione costituzionale della convivenza, ma senza esaurirla nei suoi 139 articoli.
Potremmo così dire che il compito inventivo si perpetua, passandosi la mano, dai Padri costituenti ai giuristi, in primo luogo della Corte Costituzionale per la “inventività del suo ruolo” che le è proprio. Con queste premesse, il Prof. Grossi tiene a fugare alcuni fraintendimenti e a ribadire la condanna e la presa di distanza dalle “convinzioni follemente antistoriche di chi ha parlato di un medioevo prossimo venturo e di un diritto romano attuale”.
Il passato è visto in posizione dialettica con il presente per non idealizzare o assolutizzare quest’ultimo come se fosse “un traguardo definitivo valevole per sempre”. Invece, attraverso l’attività inventiva il legislatore e il giurista si inseriscono nella dinamica del sostrato valoriale della Repubblica, scoprendo sempre davanti a sé una nuova meta da raggiungere in cui rinvenire, come una decodificazione della realtà, un diritto già scritto a beneficio del proprio tempo conforme al riferimento biblico caro al Prof. Grossi che riporta con la frase “omnia tempus habent” e che cita “con inchiostro particolarmente intenso” per sottolineare la contemporaneità della convivenza umana e dello Stato con il proprio ordinamento giuridico.
La lettura dei valori profondi della società costituì l’opera inventiva dei Padri costituenti. Quei valori sui quali si radicano come un tessuto connettivo i 139 articoli della “Carta”. L’attività inventiva, prosegue il Grossi, trova continuità nella Corte Costituzionale, non come custode di invalicabili confini del testo costituzionale formale, come se fosse chiuso in “un’urna sigillata”, ma quale istituzione di carattere giudiziario collegata direttamente con l’esperienza quotidiana per percepire “un ordine dinamicamente mosso e aperto perché vivente”, cioè quell’attività inventiva della Corte che segue la “dinamica del sostrato valoriale della Repubblica” con interventi interpretativi che generano in modo coerente modificazioni e integrazioni nell’ordine statuale.
“L’invenzione del diritto” è un’attività di ricerca del legislatore e del giurista nelle radicazioni profonde della società con “un’operazione intellettuale più attinente al leggere, conoscere, decifrare”.
Per Grossi, il “recupero per il diritto” è il recupero per il rinnovato pluralismo giuridico della pos-modernità in cui il giurista guarda alla legge non come devoto osservatore immobilizzato, dallo sguardo acritico. Recupero del diritto significa anche giudizialità del diritto che obbliga i giudici, in quanto al servizio della giustizia, a essere interpreti e inventori, nel senso in cui si è sopra precisato. Infatti, per quanto riguarda il singolo giudice, questi non è creatore di diritto, “l’operazione intellettiva tipicamente giudiziale è la inventio, il reperimento”. Il pronunciamento del giudice “secondo diritto” è l’attuazione del brocardo iura novit curia, ovvero il pronunciamento deve seguire la norma del diritto.
Il procedimento interpretativo del giudice non deve essere rigidamente deduttivo, sillogistico, di adattamento del fatto alla norma posta come premessa maggiore, ma “comprendere il caso da risolvere e, capovolgendo il procedimento sillogistico, adattare la norma al fatto” attraverso il processo inventivo dove razionalità e intuizione, percezione e comprensione del giudice si compenetrano.
Per questo, anche il giudice svolge un’opera inventiva, cioè di reperimento del diritto da applicare per la soluzione di una questione controversa. Ma non solo, anche il giudice comune è sempre più coinvolto “nell’ingranaggio della giustizia costituzionale” nel fare opera inventiva, cioè di rinvenimento, tra le possibili ipotesi interpretative, di una lettura della legge più conforme alla Costituzione e consentendo la diffusione dei valori costituzionali nella quotidianità. La custodia della Costituzione viene così estesa anche alla vigilanza di ogni giudice che si fa garante della crescita dell’ordinamento giuridico in modo coerente al divenire sociale attraverso la inventio quale operazione intellettiva tipicamente giudiziale che lo rende interprete e inventore.