Sul documento della Commissione Teologica Internazionale: La reciprocità tra fede e sacramenti nell’economia sacramentale
di Dario Chiapetti · Circa un anno fa papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del Documento, l’ultimo ad oggi, della Commissione Teologica Internazionale (la quale ha da poco celebrato il 50° anniversario della sua fondazione), intitolato: La reciprocità tra fede e sacramenti nell’economia sacramentale. Esso parte dalla constatazione che sovente si scorge tra i fedeli «un ritualismo privo di fede» o una «privatizzazione della fede» (n.9), che rivela che la reciprocità di cui parla il titolo vive una crisi, evidente nei «fallimenti pastorali» dal periodo del post-concilio in poi (n.8). Il Documento, che dichiara il suo carattere dottrinale, limitandosi solamente a suggerire alcuni spunti sul piano pastorale, si prefissa di analizzare e presentare la «rilevanza e attualità» della fede e dei sacramenti (cap.1), di approfondire la «natura dialogica dell’economia sacramentale della salvezza», a livello generale (cap.2), per passare a esaminare «la reciprocità tra fede e sacramenti nell’iniziazione cristiana» (cap.3), e concludere, tralasciando il discorso sui sacramenti della riconciliazione e dell’unzione degli infermi, con il nodo, particolarmente spinoso, della «reciprocità tra fede e matrimonio» (cap.4).
La riflessione è avviata chiarendo il fondamento filosofico della questione. Esso riguarda lo smarrimento da parte dell’uomo della conoscenza della realtà della sacramentalità della rivelazione divina. Tale problematica, che costituisce una distorsione della fede, è sorta col nominalismo medievale, sfociato poi nella modernità. In questa linea di pensiero si ravvisa «un dualismo antimetafisico che dissocia il pensare dall’essere e [che] rifiuta categoricamente ogni tipo di pensiero di carattere rappresentativo» (n.4). Perdendo la conoscenza di tipo simbolico (di un simbolismo ontologico, come per i Padri greci, e non, appunto, nominale), l’empirico e lo spirituale si dissociano tra loro, il primo entra in conflitto col secondo (modernità, ritualismo) e viceversa (postmodernità, privatizzazione). Per il pensiero simbolico invece la fede e i sacramenti si postulano a vicenda. Precisamente, la realtà sacramentale è compresa, nella linea tomista, come «l’inseparabile correlazione tra una realtà significante, con una dimensione esterna visibile […], e un’altra, significata, di carattere soprannaturale, invisibile» (n.16), la fede, invece, è presentata come «accoglienza dialogica della rivelazione sacramentale» (n.18), in cui si integrano progressivamente il credere Deum, il credere Deo e il credere in Deum.
A questo punto si inserisce la riflessione sui sette sacramenti, quali azioni che «prolungano nel tempo le opere di Cristo» (n.1), «segni efficaci che trasmettono la grazia» (n.56), che rivelano e attuano la sacramentalità della creazione (n.23 e ss.), della storia (n.28), della rivelazione (n.41), dell’uomo (n.126), del corpo ecclesiale (n.128), di Cristo stesso (n.18) e della fede (n.123). Dunque si ha che la questione dei sacramenti si inquadra in quella più ampia della sacramentalità, riconoscendo una – per così dire – sacramentalità non rituale (o extra rituale), sebbene con circospezione, mediante virgolettati «“sacramentalità della creazione”» o espressioni del tipo «in un certo senso un “sacramento”», in linea, del resto, col Vaticano II (cf. Lumen Gentium, n.1).
Ad ogni modo, il Documento giunge all’affermazione centrale, ossia che, in virtù della sacramentalità della creazione e dell’economia salvifica, la fede e i sacramenti sono stabiliti tra loro secondo «un ordine reciproco e una circolarità» (n.2): la fede rimanda al sacramento e viceversa (circolarità), ma viene prima la fede (ordine).
Ebbene, un prima problematica che il Documento permette di rilevare è quella della comunicazione della fede, al di fuori del rito, che rappresenta il punto d’avvio, imprescindibile, della generazione di un cristiano. Le molte richieste di sacramenti da parte di fedeli che non manifestano/sembrano non manifestare una chiara, o anche minima, opzione di fede, deve far riflettere sulla performatività, e non solo sull’informatività (comunque in crisi), dell’azione ministeriale dei pastori, nonché della testimonianza di vita di ogni cristiano. In tal senso, è il fedele in Cristo, ossia il cristiano, e l’annuncio che con le parole e i gesti compie, il – per così dire – «“sacramento”» “0” che l’uomo riceve (cf. il già menzionato n.126). Ma solo il cristiano che accoglie questa sua costituzione ontologica sacramentale, la manifesta luminosamente e la comunica fruttuosamente.
Emerge poi una seconda questione: quella di come stabilire la fede di chi richiede un sacramento. Il Documento richiama il principio secondo cui solo Dio conosce i cuori, ma anche che la Chiesa deve esercitare la sua azione pastorale e discernere/accompagnare gli uomini e le donne a discernere, basandosi su ciò che si rende visibile (cf. n.64). Si richiamano a tal proposito i principi teologici tradizionali del «minimo indispensabile» e della «“fede implicita”», che devono essere ottemperati, almeno per il battesimo (cf. n.53). Tuttavia, in linea col Documento, credo che, se è vero che non si possa giungere alla certezza morale sulla fede di chi richiede un sacramento, ciò non debba far accomodare la pastorale sul criterio del minimo indispensabile, che rimane valido, ma anzi deve ancor di più spingere quest’ultima ad un impegno a livello pre, o extra, rituale. E questo è forse un dato non del tutto pacifico, almeno nelle prassi pastorali.
Quanto al secondo movimento – il sacramento rimanda alla fede – il Documento conduce il cristiano a porsi un interrogativo. Quanto l’azione celebrativa manifesta, per come è concepita, vissuta e condotta, il carattere di quest’ultima, non di ritualismo o soggettivismo, ma di irrobustimento della fede? Difficile dirlo, ma stando a ciò che è visibile, ci si può domandare, quanto, ad esempio, le omelie siano traboccanti di Scrittura, Tradizione, Magistero, sangue di Cristo che chi parla fa scorrere costantemente in sé, o quanto il modo di partecipazione dei membri dell’assemblea manifesti il loro essere un solo corpo con tutta la Chiesa, nell’offerta della propria vita.
Un ultimo aspetto del Documento, che voglio richiamare, riguarda il matrimonio. Il testo fa riferimento alle diverse accentuazioni poste dagli ultimi pontefici, in buona sostanza convergenti, nell’affermare «l’interconnessione tra una fede umana viva ed esplicita e l’intenzione [che costituisce la condizione minima indispensabile per la validità del sacramento] di celebrare un vero matrimonio naturale» (n.169). Ma si pone l’interrogativo che sorge dall’attuale «comprensione culturale predominante sul matrimonio» (ibid.): cosa intendere con questo «naturale»? Ciò che è conforme alla natura che ha accolto, o a quella che non ha accolto, lo Spirito, attraverso la dinamica di fede? Se, come si afferma al n.181, occorre rifiutare gli estremismi – da un lato, l’«automatismo sacramentale assoluto», per il quale «ogni matrimonio tra battezzati sarebbe un sacramento, o per la presenza di una fede minima agente, legata al “carattere” o per l’intervento di Cristo e della Chiesa presupposto nel battesimo», dall’altro, lo «scetticismo sacramentale elitario», per il quale «qualsiasi grado di assenza di fede vizi l’intenzione e quindi invalidi il sacramento» –, resta vero che è lo Spirito accolto nella fede che informa la natura e l’intelligenza. Pertanto, anche qui, occorre la fede. In tale direzione va la posizione di papa Francesco, secondo la quale, appunto, la conoscenza deve essere «illuminata dalla fede» (n.163). Del resto, quando il credente è animato da sincera fede, questa, in virtù della sua sacramentalità, in un modo o in un altro, almeno in un certo grado, si rende visibile.
Occorre forse, in particolare oggi, puntare su un’azione pastorale e testimoniale, strutturata su principi teologici e performativa, da un lato, sul piano del primo annuncio e dell’iniziazione cristiana, che abbia presente che è essa, e non un automatismo familiare/sociale/culturale, che deve portare alla fede e quindi al sacramento, dall’altro, sul piano dell’azione liturgica, che abbia presente che la sua natura è di portare alla fede, e non al ritualismo o al soggettivismo. In altri termini, occorre far prevalere la pastorale della fruttuosità su quella della validità. La pastorale della Chiesa in uscita non cerca spazi ma avvia processi, è ciò rappresenta una strada che mal si accorda con la comodità.