di Carlo Parenti · Credo sia interessante sapere come il compianto don Corso Guicciardini conobbe l’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa. Riporto alcuni passaggi di un lungo racconto che ho avuto il dono di ascoltare da Lui:
“Io sono entrato nell’Opera da laico all’inizio del 1945. Mentre in Seminario entrai finito l’esame di laurea in ingegneria del 1948. Don Facibeni lo conoscevo un po’ già da prima, grazie all’amicizia che aveva con mio padre Giulio, ma solo dopo l’ingresso nell’Opera posso dire di averlo conosciuto per bene. D’altra parte però l’Opera rappresentava anche un punto particolare perché era un mondo di poveri. I poveri visti da vicino ti impressionano. Entrai nell’Opera l’undici febbraio 1945. Il giorno in cui la Chiesa celebra la memoria della Madonna di Lourdes. Salutai la mamma che era a letto. Povera donna! Prese un libro – che ho perso, naturalmente – in cui scrisse anche un versetto di san Paolo, molto importante: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!» [1 Corinzi 13,13]. E partii. Presi la bicicletta, misi una valigia sopra il manubrio e venni a Rifredi. Arrivato da don Facibeni stetti un po’ nello studio del Padre, come veniva chiamato, a pianterreno, nella parrocchia. Poi mi raggiunsero sia il babbo, che mio fratello Ludovico. Mi vennero a trovare appena arrivato, insomma, lì dal Padre.”
“Come ho conosciuto l’Opera? Prima non la conoscevo. Noi s’aveva la nostra vita, non frequentavamo né la parrocchia di Firenze, che era san Giuseppe, né l’Opera. Don Facibeni poi lo conoscevo per modo di dire. Non avevo al momento nessun rapporto con Lui. Quindi la conoscenza del Padre è avvenuta soprattutto attraverso la conoscenza e la condivisione della vita dell’Opera e delle sue difficoltà. All’Opera dunque ci andai per la prima volta durante l’estate del ’44 assieme a Carlo Zaccaro il quale raccolse una proposta di don Bensi che gli aveva detto: «Perché non andate a trovare i ragazzi orfani di don Facibeni ?» che erano sfollati nel Collegio Domengé Rossi in via Vittorio Emanuele II, a Firenze. Rossi aveva infatti invitato don Facibeni, per cercare di aiutarlo, a mandare lì dei suoi ragazzi, perché l’Opera era stata bombardata. Così in quella estate del 1944 in quel collegio conobbi l’Opera e un po’ il Padre. Non è che io mettessi un particolare impegno nel contattare don Facibeni, pur essendo amico di mio babbo, anzi da noi due non era una persona proprio ricercata. Noi s’andava lì per trovare questi ragazzi. Noi due la missione si fece insieme, anzi fu Carlo Zaccaro che mi condusse. Lui è stato il tramite di don Bensi. Ci eravamo infatti conosciuti da don Bensi. Serviva la messa la domenica, poi era facilmente riconoscibile, aveva la voce sonora. Era imponente! Da don Bensi io andavo a confessarmi il sabato. Carlo allora vestiva con un bel vestito di tela bianca, a doppio petto, calzini bianchi, sandali aperti. La mamma lo teneva bene! A quel tempo era fidanzato. Comunque è stato lui, che era chiamato il dotto’, a farmi conoscere i ragazzi e quindi l’Opera. Più tardi si è laureato in diritto agrario e lavorò. A trentatré anni si fece sacerdote dell’Opera. Poi divenne anche libero docente di diritto agrario col professore Gian Gastone Bolla che gli voleva un gran bene.
“Tornammo ancora noi due soli – e basta – nel collegio del Rossi. Si andava, passavamo il tempo coi ragazzi che non erano tanti, circa una quindicina. In mezzo a loro c’era un sacerdote quasi novello, don Nello Pecchioli, il quale si era fatto sacerdote dell’Opera ed era il primo. Era di otto anni più vecchio di me. Io avevo venti anni precisi nel 1944 e lui ventotto. Carlo aveva ventidue anni ed era ancora in famiglia e studente. Quindi don Nello era giovane! Ma fervido, entusiasta, creativo! Non ci si mise molto, io e Carlo, ad innamorarci dell’Opera. Di servizio se ne faceva poco, ma si stava coi ragazzi. Una volta Carlo si allontanò, da noi che s’era in casa, e si avviò verso un vialetto. Lo seguimmo ma eravamo un po’ dietro. A metà vialetto Carlo staccò da un blocco notes un foglio e ci scrisse sopra. Lo ripiegò così a madonna [don Corso mimò il gesto] e quando solo io lo raggiunsi me lo consegnò chiedendomi di passarlo a don Nello. Io stavo accompagnandolo, ma non sapevo cosa ci fosse scritto. Sicché io tornai indietro, ma prima di consegnarlo a don Nello ebbi la curiosità di guardare cosa c’era scritto e lessi: «Don Nello preghi perché Corso venga nell’Opera – virgola – entri nell’Opera».”
Non posso fare a meno dal riportare un pezzetto di una lunga registrazione di don Carlo Zaccaro , fatta da Mario Bertini, nella quale si conferma il racconto di Corso: «Regista della mia venuta all’Opera fu don Bensi. C’era anche Corso.[…] Così il mio primo contatto con La Madonnina del Grappa nacque su ordito di don Bensi. Corso ed io su suo suggerimento andammo ad aiutare don Facibeni.[…] Rifredi era stata bombardata; così si andò al Collegio Domengé Rossi dove c’erano ragazzi dell’Opera. Insieme agli orfani c’erano anche ebrei, patriotti, partigiani, clandestini. Don Nello ci accolse. Era molto giovane, simpatico audace e iniziò, diciamo così, a farci la corte. Corso – evidentemente già in crisi vocazionale – era allora il miglior partito di Firenze: giovane, bello, aristocratico, laureando; c’era la fila di giovani nobildonne fiorentine che si inserivano. Fu subito attratto dall’Opera. Io resistetti…ma poi…! Noi in realtà abbiamo delle storie già scritte.».
Concludo (confessando che scrivendo sono sopraffatto dall’emozione di aver incontrato questi due giganti, maestri di Carità) con quanto ancora mi ha detto don Corso delle sue prime esperienze alla Madonnina del Grappa:
“Quando nel febbraio 1945 entrai nell’Opera non c’era niente! Lo dice anche don Nello nelle sue testimonianze sull’Opera. Non c’era niente, non avevano niente. Don Celso Quercioli dovette andare, non so dove, a tagliare un albero per fare degli zoccoli ai ragazzi. Proprio come descritto anche nel film di Olmi [dove la scena centrale è proprio il taglio da parte di un contadino di una piccola betulla abbandonata per fare gli zoccoli al figlio]. Mi ricordo la camerata degli operai. Era piena zeppa con le persone che dormivano anche per terra, perché non c’era posto. C’erano letti da tutte le parti. Erano ragazzi disoccupati. Come si sia potuti uscire da quella realtà nemmeno lo ricordo. Ma era questa realtà. Il refettorio era di tavoli, panche, pile di pane, scodelle d’alluminio – ma ammaccate – cucchiai d’alluminio, alle volte non c’era neanche il coltello; c’era la forchetta, ma il coltello non c’era! A Rifredi c’erano due case. Una casa a nord per gli studenti, quelli che frequentavano gli istituti superiori, e una a sud per gli operai. Ogni casa aveva non meno di ottanta, novanta ragazzi. C’era una sola cucina. La chiamavano “la corsa”. Prendevano una marmitta della minestra e la portavano di là di corsa. La “sbobba”, la chiamavano. Allora c’era una grande miseria, è sempre stato un problema”.
Penso a come era diversa la vita a cui aveva rinunciato il giovane Corso – accudito allora addirittura da un cameriere in un palazzo dove tra l’altro per preparare le delizie del palato, al posto della “sbobba”, c’erano un cuoco e un aiuto cuoco – per seguire il Vangelo.