di Giovanni Campanella • Agli inizi di ottobre 2019, la casa editrice Morcelliana ha pubblicato, all’interno della collana “Piccoli Fuochi”, un piccolo ma interessante libriccino tascabile intitolato Uomo tragico, uomo biblico – Alle origini dell’antropologia occidentale. Il libretto delinea sinteticamente ma con precisione alcune cruciali idee sull’uomo emerse in quei primissimi laboratori di pensiero che furono la Grecia antica e il popolo ebraico e che incisero profondamente su tutta la successiva antropologia.
L’autore è Salvatore Natoli (Patti, 18 settembre 1942), filosofo e accademico italiano. Si è laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano, dove ha trascorso gli anni di studio nel Collegio Augustinianum. Ha insegnato logica alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Filosofia della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Attualmente è professore ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Si potrebbe dire che l’operetta mette a confronto due sistemi fondamentali della prima antropologia, aventi in comune la consapevolezza della finitudine umana di fronte all’indomabile. Il modo di gestire il problema è tuttavia diverso. Il primo scenario è ciò a cui l’autore si riferisce trattando della cosiddetta “metafisica del tragico”, che permea l’antica mitologia greca e sta a fondamento di opere celeberrime come i poemi omerici e le tragedie del teatro (una su tutte l’Edipo re). Il secondo scenario è la “teologia del patto”, che percorre tutta la Bibbia e che individua nella relazione con Dio l’unico elemento stabile nel mondo (Natoli prende in considerazione soprattutto le figure di Giobbe e di Qoèlet).
Nel mito greco, l’uomo è indifeso, in balia delle forze della natura: la vita è una lotta continua e la natura è lacerata e lacerante. Nel dissidio interiore che testimonia la vicenda del sacrificio della figlia Ifigenia da parte di Agamennone e poi nella tragedia di Edipo (la massima espressione del tragico secondo Aristotele), si evidenziano non soltanto forze in contrasto al di fuori dell’uomo ma anche e soprattutto all’interno dell’uomo: l’uomo stesso è enigma.
«Nel pensiero greco arcaico – e a seguire in quello dell’età classica – nessun uomo può modificare il suo destino e, tuttavia, può adattarsi a esso o meglio adattarselo. Il destino, infatti, riguarda certo ciò che ci toccherà in futuro, ma più ancora – come in Edipo – quel passato che ci precede e, a suo modo, ci destina. Non si tratta di un passato individuale, ma di un’eredità sociale. È ciò che si dice quando si afferma che è il futuro che sta alle nostre spalle» (p. 27).
Per Israele, invece, non tutto è effimero, sfuggevole, magmatico, avverso: esiste un’unica stabile ancora di salvezza al quale l’ebreo deve aggrapparsi per salvarsi dai vorticosi flutti della vita. È la relazione con Dio, da coltivarsi assecondando la sua volontà, inscritta nella Legge da lui data al popolo. È un Dio unico, non legato, come gli dei di altre mitologie, a particolari e circoscritti fenomeni della natura. È soprattutto un Dio non astratto, un Dio concreto che si immerge concretamente nella vera storia del popolo: l’evento cruciale è la liberazione dall’Egitto. Natoli riprende alcune osservazioni di Ouaknin, il quale nota che la parola Yehuda («ebreo») è formata da cinque lettere (yod, he, waw, dalet, he), che sarebbero le quattro lettere del Tetragramma con l’aggiunta della lettera dalet, che rinvia al concetto di “porta”. La bella suggestione è che essere ebreo rinvia all’essere “porta verso Dio”. In Giobbe, è forse portata alle estreme conseguenze l’idea che solo la relazione con Dio rimane e solo essa conta: tutto il resto è contorno. La vicenda di Giobbe scardina la teologia della retribuzione, alla quale anche il personaggio di Qoèlet sembra ancora avvinghiato e da ciò, sembrerebbe suggerire Natoli, deriva la sua malinconia.
L’invito alla relazione con Dio è in fondo anche un invito ad uscire da sé perché solo l’uomo in uscita verso l’Altro e gli altri riesce a gattonare a tentoni verso un senso e una pienezza nell’apparente marasma che presenta il mondo.