Cristo, l’ebreo di Nazareth: in margine ad un recente volume

Ebreo-di-Nazaret_copdi Stefano Tarocchi • Scrive Paolo nella lettera ai Romani che «Cristo è diventato servitore dei circoncisi – lett. “della circoncisione” – per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri» (Rom 15, 8). Paolo si basa «sul dato che il Gesù storico non è mai andato a predicare fuori dai confini di Israele». Ma è pur vero che «Gesù era ed è stato ebreo dall’inizio alla fine. È vissuto per Israele, è stato servitore dei circoncisi» (R. Penna).

L’apostolo già aveva scritto che «unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede» (Rom 3,30). E, a proposito di Abramo, che egli «divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia ed egli fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo provengono dalla circoncisione ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione» (Rom 4,11-12).

È ciò che Gesù afferma di sé stesso, ad esempio, nel vangelo di Matteo: «non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24). Per questa ragione, viene messo in rilievo il mandato missionario successivo, che ha un evidente carattere universale: «andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).

Perciò «non è sufficiente confessare che Gesù è vero uomo: è un’affermazione troppo generica. Uomo significa che la personalità di ognuno può essere definita dalle singole culture che compongono le diversità. Ora Gesù non è solo un uomo, è un ebreo, un dato di realtà che va ha ribadito in maniera forte: colui che chiamiamo Nostro Signore è un ebreo. L’incarnazione è umanizzazione ma è anche storicizzazione e inculturazione» (R. Penna).

È la sensibilità che appartiene alle fondamenta della fede cristiana. Lo dice l’incipit del Vangelo di Matteo: «genealogia (lett. “libro delle origini”) di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1). E lo ripetono il Vangelo di Giovanni: «non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?» (Gv 7,42), e la stessa Apocalisse: «Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16).

In quest’ottica il P. Frédéric Manns, dell’ordine dei frati minori, archeologo ed esegeta dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme ha recentemente pubblicato un saggio (L’ebreo di Nazaret. Indagine sulle radici del cristianesimo, Edizioni Terra Santa, Milano 2019) che muove dal punto di vista precedentemente messo in luce.Frederic-Manns

Il padre Manns si muove su linee concentriche: dapprima delinea il quadro generale, a cominciare da un inquadramento della «Galilea all’epoca di Gesù» e il contesto culturale di quello spazio particolare della terra del Vangelo. Ecco pertanto lo sguardo alla frequentazione di Gesù al culto sinagogale e l’adesione alla preghiera dello Shemà, la professione dell’unico Dio («ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore»: Dt 6,4), e, infine,  la conoscenza da parte di Gesù delle tradizioni targumiche – testimonianza di quando il popolo ebraico abbandonò progressivamente l’ebraico a favore dell’aramaico come lingua parlata – , mettono in luce un orizzonte interpretativo su Gesù, forse finito un po’ dimenticato.

Quest’analisi approfondita non può dimenticare anche le parabole, come del resto il modo di interpretare le Scritture dell’Antico Testamento. A proposito delle prime, così scrive Manns: «il linguaggio parabolico è allusivo ed enigmatico: con le parabole Gesù non parla apertamente, Egli dice e non dice, svela e nasconde, manifesta e occulta… Gesù non fa seguire alle parabole la spiegazione: solo i discepoli la ricevono in privato, nella casa. Non si possono quindi considerare le parabole di Gesù strumenti didattici geniali, quasi che fossero esempi semplici per condurre l’ascoltatore ad un insegnamento dimostrato poi in termini più concettuali… La parabola è un modo di esprimersi che utilizza esempi concreti ed è basata sul paragone tra due situazioni: una nota e una non nota. Ha lo scopo di illustrare in modo chiaro concetti complessi, favorendo una comprensione immediata ma pure l’intento di consentire il passaggio degli ascoltatori da un modo – per loro abituale – di capire ed interpretare le parole espresse e gli eventi narrati a una profondità inaspettata».

Quanto sia attuale questo itinerario interpretativo, lo comprendiamo facendo riferimento alla storia, e non solo, a cominciare da quando nel settembre 1938 il papa Pio XI – Hitler era stato a Roma nel maggio precedente – pronunciò in Vaticano il famoso e memorabile discorso in cui affermò che «l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti». Come ha messo in luce qualche anno fa lo storico Giovanni Sale, della Civiltà Cattolica, l’Osservatore Romano pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei e altrettanto fece la stessa Civiltà Cattolica.

Di stretta, quanto inquietante, attualità invece, non tanto delle omissioni, ma il riapparire di scritte inquietanti sulle case dove abita una persona di origine (e/o di fede) ebraica.

Comprendere il Gesù della storia, e anche il Gesù della fede, significa poter leggere nel pieno senso del termine anche l’oggi del nostro esistere.