Il postmoderno e la teologia urbana di Armando Matteo
di Dario Chiapetti • Proprio recentemente con un ex collega ricordavo il Seagram Building, il grattacielo newyorkese, tra i più eloquenti manifesti del Movimento Moderno, progettato da Ludwig Mies van der Rohe (1886-1969). Quando penso a quest’opera penso sempre a quella soluzione di rompere l’allineamento sul fronte strada con le facciate degli altri edifici, a quell’arretramento che genera spazio (una sorta di piazza, luogo di scambio), spazio che è anche distanza e distanza che è condizione di osservazione di ciò che si viene a configurare così come alterità. Penso a come ciò costituisca l’invito ad accorgersi delle cose come presenza, con le sue fattezze, in questo caso l’armonia, armonia ricercata, facendo propria la lezione degli antichi greci, negli studiati rapporti geometrici e spaziali e che si esprime nelle forme essenziali e moderne del vetro e bronzo delle finiture esterne. Penso a come la particolare concezione del rapporto interno-esterno che esso esprime informi non solo l’esperienza spaziale di chi sta all’esterno ma anche la logica abitativa di chi sta all’interno. Ebbene, pensando a tutto ciò del Seagram penso ai termini con cui papa Francesco parla del cammino che la Chiesa ha da compiere oggi.
L’Autore conduce le sue riflessioni muovendosi su più piani, pastorale, filosofico, sociologico, ecc., e fotografa lo stato attuale globale, sia della Chiesa che della città, con immagini piuttosto grigie, certo provocatorie, senza la preoccupazione di soffermarsi sulle eccezioni, e tuttavia cerca di mostrare come tutto ciò costituisca un invito imperdibile a comprendere e trasmettere la vita del Vangelo in modo purificato e rinnovato.
La città, invece, nasce come luogo di interazione ma si trasforma ben presto in luogo di ammassamento di persone sole e la realtà dei social altro non è che paradigma della città come ammassamento di persone sole.
Ora, questi stati di fatto non possono essere più lasciati stare o trattati con qualche maquillage come i tentativi di rinnovamento pastorale, secondo l’Autore, degli ultimi decenni confermano. Difronte a tutto ciò occorre pensare, tornare a pensare, pensare il postmoderno, pensare sé, pensare la fede: osservare con l’opportuna distanza il grattacielo. Matteo esamina la religiosità cristiana e il postmoderno e argomenta la sua interpretazione di come quello che siamo sia il frutto maturo della negazione di Platone, Agostino e della concezione romana della res publica. La questione è urgente da affrontare, oltre che complessa e dibattuta (per un punto di vista orientale penso, ad esempio, al pensiero di Christos Yannaras così come è espresso in Χάϊντεγγερ καὶ Ἀρεοπαγὶτης, ὴ Περὶ ἀπουσίας καὶ ἀγνωςίας τοῦ Θεοῦ, Domos, Atene 19882).
È senz’altro degno di nota il tentativo di Armando Matteo di rimettere al centro della questione del pensiero e dell’azione il pensare. È un accurato pensare che scardina ciò che si crede di sapere, allarga gli orizzonti, evita all’uomo la sua relegazione all’unico compito di parare i colpi dei calcinacci che cadono. E soprattutto è il pensare, il pensare le cose che si hanno davanti, che costituisce il primo esercizio del vero ruolo dell’uomo, sacerdote del creato, architetto della città.