Essere figli. Una questione «da Dio»
di Francesco Vermigli • Vari passaggi neotestamentari – in particolare alcuni nel Vangelo secondo Giovanni, nella Lettera ai Galati e in quella ai Romani – presentano la vita cristiana nei termini della figliolanza. Questa indicazione biblica è stata resa dalla Tradizione mediante la formula sintetica filii in Filio: con tale formula si intende dire che è nel Figlio – cioè grazie al Figlio e a causa del Figlio – che ai credenti è concesso di diventare “figli di Dio”. Ma mentre Gesù è il Figlio Unigenito connaturale al Padre e incarnato per la nostra salvezza, i credenti in Lui sono descritti secondo l’immagine dei “figli adottivi” (come ad esempio si legge a Gal 4,5: «perché ricevessimo l’adozione a figli»).
Se guardiamo al nostro mondo e alla nostra realtà terrena, notiamo come per “diventare figli” sia sufficiente che qualcuno ci dichiari tali. Ci riferiamo all’istituto plurimillenario dell’adozione, che ha rivestito un ruolo decisivo in alcuni passaggi della storia dell’Europa: basti qui accennare a quale compito abbia svolto l’adozione nella successione al trono imperiale a Roma. Queste considerazioni non paiono però adatte se passiamo a parlare della condizione di figli adottivi di Dio. Non basta cioè pensare che per essere “figli di Dio” è sufficiente che Dio nella sua magnanimità – come farebbe un qualsiasi adottante – decida di considerarci come figli.
Nella storia della teologia – nel de gratia in particolare – la trasformazione dell’uomo da un punto di vista soprannaturale è spesso stata pensata attraverso la categoria della “grazia creata”: Dio nella sua benevolenza verrebbe a creare nell’uomo un ente (una quidditas per dirla con il Suárez) capace di produrre effetti soprannaturali, tali da mutarne la posizione esistenziale di fronte a Dio. Dunque anche in relazione alla figliolanza divina dell’uomo potrebbe essere battuta la strada della “grazia creata”.
V’è tuttavia un principio della metafisica che si pone come un caveat in questo senso: se pensata la filiazione adottiva nei termini sopra ipotizzati, si assisterebbe al caso di un ente creato (la “grazia creata”) che verrebbe a produrre effetti (“la filiazione divina adottiva”) superiori alla propria natura. Poiché è principio fondamentale quello espresso dalla formula agere sequitur esse, è piuttosto preferibile pensare che per diventare “figlio di Dio per adozione” è necessario che sia Dio stesso, non un suo ente creato a intervenire. Per questo, come accenniamo nel titolo di questo articolo, diventare figli di Dio è una “questione da Dio”, che cioè solo Dio direttamente, nella sua onnipotenza può realizzare. A ben vedere, infatti, non è concepibile un dono più grande di questo: diventare nel Figlio Unigenito figli adottivi dell’eterno Padre, fonte sempiterna della divinità. Un dono, quello della filiazione soprannaturale, che sorpassa ogni altro possibile dono divino.