di Francesco Vermigli • Vari passaggi neotestamentari – in particolare alcuni nel Vangelo secondo Giovanni, nella Lettera ai Galati e in quella ai Romani – presentano la vita cristiana nei termini della figliolanza. Questa indicazione biblica è stata resa dalla Tradizione mediante la formula sintetica filii in Filio: con tale formula si intende dire che è nel Figlio – cioè grazie al Figlio e a causa del Figlio – che ai credenti è concesso di diventare “figli di Dio”. Ma mentre Gesù è il Figlio Unigenito connaturale al Padre e incarnato per la nostra salvezza, i credenti in Lui sono descritti secondo l’immagine dei “figli adottivi” (come ad esempio si legge a Gal 4,5: «perché ricevessimo l’adozione a figli»).
Lo stesso Gesù distingue il proprio rapporto con il Padre che è nei cieli da quello che abbiamo noi. Ad esempio, nel giorno della Risurrezione, dice a Maria di Magdala di andare ad annunciare la sua ascesa al Padre, ma usando queste parole: «salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). E se vogliamo, anche quando recita l’unica preghiera che ha insegnato – tanto che viene definita dalla tradizione cristiana come la “preghiera” o “orazione del Signore” – non dice: “quando preghiamo, dobbiamo dire: Padre nostro”, ma dice: “quando voi pregate, dite: Padre nostro…”. Gesù condivide la nostra condizione umana, cammina con noi, parla come noi, pensa e sente come gli uomini; ma la sua identità di Figlio eterno del Padre è incomunicabile. Questa condizione resta ciò che Egli non può e non potrà mai condividere con nessuno.
Tuttavia anche noi possiamo definirci grazie a Lui e in Lui “figli di Dio”; come abbiamo ripetuto fino a questo momento, a partire dalla Scrittura e dalla Tradizione. Ma come può accadere questo? Come, cioè, possiamo diventare figli?
Se guardiamo al nostro mondo e alla nostra realtà terrena, notiamo come per “diventare figli” sia sufficiente che qualcuno ci dichiari tali. Ci riferiamo all’istituto plurimillenario dell’adozione, che ha rivestito un ruolo decisivo in alcuni passaggi della storia dell’Europa: basti qui accennare a quale compito abbia svolto l’adozione nella successione al trono imperiale a Roma. Queste considerazioni non paiono però adatte se passiamo a parlare della condizione di figli adottivi di Dio. Non basta cioè pensare che per essere “figli di Dio” è sufficiente che Dio nella sua magnanimità – come farebbe un qualsiasi adottante – decida di considerarci come figli.
Infatti, tanto la Scrittura quanto la Tradizione liturgica (ad esempio nel rito del battesimo) e quella teologica spingono a pensare che l’adozione alla figliolanza soprannaturale non potrà mai essere solo un’elevazione esteriore, una semplice nuova denominazione di qualcuno che resta in radice la stessa persona di prima. La Scrittura e la tradizione tendono a presentarci l’elevazione dell’uomo al rango di figlio di Dio come una trasformazione interiore ed ontologica dell’uomo medesimo; piuttosto che di un cambiamento semplicemente formale e terminologico.
Ricapitoliamo ciò che abbiamo fin qui detto. Appartiene al dato rivelato che sia concesso all’uomo di diventare figlio di Dio in virtù della missione di Cristo, causa di figliolanza per gli uomini; Cristo, che non potrà però mai condividere con essi la propria condizione di Figlio Unigenito del Padre. Tale dono non appartiene al solo ambito denominativo: cioè Dio non inizia semplicemente a chiamare e a considerare gli uomini come figli, ma se inizia a vederli come figli è perché li ha trasformati in figli. Come accada concretamente questo è oggetto dell’ultimo passo della nostra riflessione.
Nella storia della teologia – nel de gratia in particolare – la trasformazione dell’uomo da un punto di vista soprannaturale è spesso stata pensata attraverso la categoria della “grazia creata”: Dio nella sua benevolenza verrebbe a creare nell’uomo un ente (una quidditas per dirla con il Suárez) capace di produrre effetti soprannaturali, tali da mutarne la posizione esistenziale di fronte a Dio. Dunque anche in relazione alla figliolanza divina dell’uomo potrebbe essere battuta la strada della “grazia creata”.
V’è tuttavia un principio della metafisica che si pone come un caveat in questo senso: se pensata la filiazione adottiva nei termini sopra ipotizzati, si assisterebbe al caso di un ente creato (la “grazia creata”) che verrebbe a produrre effetti (“la filiazione divina adottiva”) superiori alla propria natura. Poiché è principio fondamentale quello espresso dalla formula agere sequitur esse, è piuttosto preferibile pensare che per diventare “figlio di Dio per adozione” è necessario che sia Dio stesso, non un suo ente creato a intervenire. Per questo, come accenniamo nel titolo di questo articolo, diventare figli di Dio è una “questione da Dio”, che cioè solo Dio direttamente, nella sua onnipotenza può realizzare. A ben vedere, infatti, non è concepibile un dono più grande di questo: diventare nel Figlio Unigenito figli adottivi dell’eterno Padre, fonte sempiterna della divinità. Un dono, quello della filiazione soprannaturale, che sorpassa ogni altro possibile dono divino.