A cinquant’anni «dall’Humanae vitae». Il contributo ermeneutico di don Enrico Chiavacci

31-08-2013-18-38-071di Gianni Cioli • L’anno appena trascorso, il 2018 ci ha fatto prendere coscienza che sono passati 50 anni dal 1968, una data che ha indubbiamente segnato un punto di svolta o, meglio, un punto di soglia – per altro ancora molto controverso – nella storia dell’occidente. Anche per la storia della teologia morale cattolica quell’anno ha rappresentato una soglia significativa, soprattutto per la pubblicazione dell’enciclica forse più dibattuta di tutta la storia del magistero cattolico, l’Humanae vitae, dedicata da Paolo VI alla questione della regolazione delle nascite e dei mezzi moralmente leciti per attuarla. Il documento, che com’è noto, dichiarava illeciti tutti i mezzi contraccettivi artificiali, anziché chiudere il dibattito ha in effetti innescato una molteplicità di percorsi ermeneutici relativi non solo alla specifica problematica del controllo delle nascite, ma soprattutto alle tematiche morali fondamentali che hanno segnato irreversibilmente la storia della teologia morale del postconcilio. Fra questi percorsi, nell’ambito della teologia morale italiana, si segnala come particolarmente significativo quello elaborato dal prete e teologo fiorentino, Enrico Chiavacci (1926-2013), il quale ha fin da subito cercato di interpretare il documento pontificio alla luce di una precisa riconsiderazione del rapporto fra coscienza cristiana e legge morale, segnata sia dall’affermazione del primato della coscienza, sia dal riconoscimento dell’imprescindibilità della legge. È verosimile che sia stata proprio la sfida ermeneutica richiesta dall’applicazione pastorale dell’enciclica a fornirgli lo stimolo per raffinare la sua visione del rapporto di necessaria reciprocità fra coscienza e legge.

Gli atti del convegno saranno pubblicati, a breve, nel primo numero della Rivista della Facoltà teologica dell’Italia centrale di quest’anno: Vivens homo 30 (2019).