Tesori in vasi di creta. Fragilità e fortezza
di Carlo Nardi • C’è un’espressione in san Paolo che dice molto di Cristo, del cristianesimo, del cristiano singolo, della Chiesa, della Scritture sante: «noi abbiamo un tesoro in vasi di coccio» (2 Cor 4,7). Qual è il tesoro? Non è, almeno primariamente, una costellazione di valori che, lasciati a se stessi, non si troverebbero molto a proprio agio in fragili vasi di terracotta, perché i valori, quando si enunciano, abbisognano sempre di sempre un po’ di scena.
Il tesoro è Gesù, morto e risorto, in sé, nella sua persona e nella sua presenza, anch’essa fragile, nella grazia del suo Spirito, nella realtà della sua parola e dei sacramenti, realtà che è a fondamento della Chiesa.
Vaso di coccio è l’umanità, così com’è. Che, per l’appunto, è come quella del Figlio di Dio fattosi uomo. Sicché è umanità fatta di creta, amata dal Figlio eterno, anche se fragilità vuol dire agitazione, angoscia, fino a sudar sangue.
E quella del Figlio è umanità come la nostra, di noi come Chiesa di Cristo che egli ama, ma dove c’è qualcosa che in Lui non c’è e che Lui non ama. Intendo il peccato, i nostri peccati che provengono dall’interiorità delle decisioni: «è dal cuore dell’uomo …», ricorda Gesù (Mc 7,15), e da lì scaturisce il peccato nella sua ripetitività monotona, disperante, che si fa abitudine, mentalità, costume, talora struttura, complicità. Anche nella Chiesa di Cristo che egli ama, che ama da Dio.
Il fatto è che ci riesce difficile, anche dopo quaresime più o meno rigorose, riconoscere i nostri cocci e non di meno i cocci della Chiesa.
Invece non sembra bastare la speranza, quella che ha il senso del rispetto per le competenze umane, per le attese dei ‘piccoli’, per i progetti generosi: una speranza che sa di fondarsi non sul culto di personalità di volta in volta emergenti nella cultura, nella politica, nella religione, ma sulla parola e la promessa di Gesù.
Non sembra bastare la carità come grazia di nostro signor Gesù Cristo, una carità che sa mettersi a servire «con quel tacer pudico che accetto il don ti fa» per essere alla pari in un reciproco servizio (Manzoni). E invece la si vuole “visibilizzata”, sponsorizzata, apprezzata, mentre nelle «buone opere» del vangelo va cercata solo la «gloria del Padre che è nei cieli» (Mt 5,16)).
Ci è difficile gioire della fragilità. Ci è facile spostare l’attenzione dal Dio vivo a un dio fatto dalla nostra immaginazione o dai nostri sfizi. È pur sempre la tentazione del vitello d’oro. Il voler vedere, toccare, sentire.
Ed è una porta che un pastore d’anime non deve mai permettere di oltrepassare. Il culto cattolico è “pubblico e comune”, semplice come la preghiera di Gesù e dei cristiani, il paternostro, come insegnava san Cipriano.