di Francesco Vermigli • Percorrendo la strada che a Firenze dal Ponte di Mezzo si dirige verso la ferrovia e il quartiere di Rifredi – in un rientro tra cipressi e casette basse e sullo sfondo fabbriche e banche di quella che oggi è detta “Firenze Nova” – ci si imbatte in una scritta, sopra una cancellata. La scritta è in ebraico – è un versetto del cosiddetto Cantico di Anna (2Sam 2,6) – e quella scritta fa sostare chi passa, perché rivela che quello è il luogo di un cimitero ebraico monumentale.
Quella scritta è uno dei segni della presenza discreta dell’ebraismo nelle nostre città. È forse anche la presa di coscienza di questa presenza – dispersa e integrata nei tessuti urbani e nella nostra storia europea – che è all’origine dell’istituzione della «Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra Cattolici ed Ebrei»; quest’anno giunta al suo 28° anno e dedicata al Libro di Rut. Non v’è dubbio che gli ultimi decenni hanno conosciuto un’accelerazione nella direzione di una migliore reciproca conoscenza tra ebrei e cattolici. Pietra miliare di questo approfondimento nei rapporti è certo Nostra aetate, 4; ma sono stati gli impulsi dati dagli ultimi pontefici a far sì che ciò che si trova scritto nel documento conciliare, non restasse lettera morta.
Sull’«Osservatore Romano» del 16 gennaio 2017 Norbert Hofmann, segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo ha ripercorso la storia dei gesti memorabili, dei momenti salienti, dei testi più significativi che hanno riguardato il rapporto tra ebrei e cattolici, sotto i pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Stili diversi e modalità differenti di approccio, ma accomunati dalla percezione che il dialogo della Chiesa cattolica con gli ebrei è un dialogo privilegiato; siglato dalla ben nota definizione di “fratelli maggiori”, con cui Giovanni Paolo II si rivolse alla comunità ebraica di Roma, nella visita alla Sinagoga del 13 aprile 1986.
Da dove nasce questo carattere privilegiato del dialogo con il mondo giudaico? Si tratta, con ogni evidenza, del fatto che tra le tante religioni solo con l’ebraismo il cristianesimo si può porre in una relazione di dipendenza di origine e di ispirazione teologica: per questa ragione, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo è significativamente parte del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Questo significa che non potrà mai accadere che un proficuo e serio dialogo tra ebrei e cristiani avvenga solo al livello culturale; intercettando esso, piuttosto, la stessa radice e lo stesso profilo originario del cristianesimo. Se vorrà essere all’altezza della relazione tra il mondo cristiano e quello ebraico, questo dialogo non potrà scavalcare la riflessione teologica.
Ne è ben consapevole il recente documento della medesima Commissione, «Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di «Nostra aetate», n. 4: pubblicato il 10 dicembre 2015, ad esso accennava l’articolo di S. Tarocchi, uscito in questa rivista online, nel numero di marzo 2016. Non abbiamo qui la pretesa di presentare tale documento; ci piace qui notare che esso reca fin dal titolo il riferimento a quel versetto della Lettera ai Romani che per una seria teologia del dialogo tra cattolici e ebrei pare proprio non possa essere messo da parte. Con quelle poche parole Paolo riesce a mostrare qual è il posto dell’ebraismo nella storia della salvezza; alla luce della considerazione che quello che è stato giurato a Davide, non potrà mai essere ritrattato (cfr. Sal 89,34-38).
Ma una seria teologia del dialogo con il mondo ebraico non potrà certo che confrontarsi anche con le affermazioni in apparenza opposte che il figlio di Israele (Gesù) fa sulla realizzazione delle antiche promesse che avvengono nella sua stessa persona. Come tenere assieme queste due linee che hanno tutta l’idea di essere contrastanti? O forse – come spesso accade quando si ha a che fare con asserti teologici – si tratta di un’opposizione solo apparente?
Come noto, nel corso dell’anno liturgico la Chiesa cattolica affronta il tema del rapporto con gli ebrei almeno in un’occasione in modo solenne: nella preghiera universale, cioè, che il venerdì santo eleva a Dio perché custodisca il mondo intero. Invocazioni simili si rintracciano occasionalmente anche tra le preghiere della liturgia delle ore. Ebbene, il testo di tali preghiere pare equilibrato e convincente in senso teologico: non viene celato che è richiesto agli ebrei il progresso nella fedeltà a Dio – sottintendendo nell’accettazione della rivelazione di Cristo – ma i modi, gli strumenti, i percorsi di questo progresso sono nelle mani di quel Dio che non ritratta le proprie promesse fatte ad Abramo e ai suoi figli. In quelle preghiere, la Chiesa chiede al Signore che guardi al popolo di quell’Alleanza che non avrà fine, con la fedeltà di cui solo Lui è in grado di dar prova.