La penitenza come esigenza d’amore nell’«Opera a ben vivere» di sant’Antonino Pierozzi

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di Gianni Cioli · Nella sua Opera a ben vivere, un piccolo trattato spirituale scritto in volgare composto tra il 1450 e il 1454, sant’Antonino Pierozzi sostiene che la diposizione dell’anima alla penitenza e all’esercizio fruttuoso dalla confessione sacramentale è sostenuta, nella maniera più efficace, dall’amore che deriva dalla memoria dei benefici di Dio e della sua sorprendente misericordia. L’anima, infatti, afferma Antonino, “stupendo della grande benignità di Dio, e dolendosi della sua ingratitudine, tutta viene in compunzione; dolendosi grandemente dell’offensione ch’ella ha fatto a Dio, e disponsi di porre fine al suo malvivere, e di cominciare vita nuova. E così, tutta confusa e compunta, si va a confessare, con animo di mai più non offendere Iddio” (Opera a ben vivere di santo Antonino arcivescovo di Firenze messa ora a luce con altri suoi ammaestramenti e una giunta di antiche orazioni toscane da Francesco Palermo, Firenze 1858, p. 25).

Con queste parole il vescovo domenicano sintetizza efficacemente, pur senza entrare nei dettagli terminologici e nelle sottigliezze delle distinzioni teologiche, il rapporto che sussiste tra i primi due atti del penitente relativi al quarto sacramento, ovvero, la contrizione e la confessione, parti integrali della penitenza, secondo la terminologia della Summa Theologica di Tommaso d’Aquino, ripresa nella Summa di Antonino (Pars. III, tit. 14, cap. 17, § 6).

È dottrina comune che il proposito di non peccare più sia condizione imprescindibile per ottenere la remissione dei peccati, ma vale la pena soffermarsi sull’acume teologico, la saggezza spirituale e la sensibilità pastorale con cui Antonino argomenta sul miglior fondamento da poter dare a tale proposito. Esso, per il nostro autore, risiede nell’amore per il Signore.

Ora è da vedere qual cosa è quella che ci abbia meglio a guardare, che non caggiamo più in peccato. E disaminando me medesimo, non ci conosco più efficace fondamento a poterci di ciò guardare, che è lo puro amore che portiamo al nostro Signore Gesù Cristo: al quale amore nulla cosa è che tanto ti ci faccia pervenire, e che tanto infiammi le anime nostre di Lui, quanto fa a recarsi a memoria li beneficii che ci ha fatti. I quali se in verità ben di cuore la devota anima il suo amore pone solamente in Dio, cogitando sempre in che modo, e per che via, e con quali opere esercitandosi, più gli possa piacere” (pp. 25-26).

Questa intuizione trova una corrispondenza nella distinzione fra timore filiale e timore servile affermata da San Tommaso nella Summa IIª-IIae q. 19 a. 5 s. c., sulla base dell’autorità di Agostino (cf. Commento alla Lettera di San Giovanni, Omelia IX,6). Tommaso, in riferimento al Maestro delle sentenze (lib. III, dist. 34, cap. 4), riconosce peraltro quattro tipologie di timore: filiale, iniziale, servile e mondano (IIª-IIae q. 19 a. 2 arg. 1). Antonino, nella Summa, disquisisce in maniera molto ampia e articolata su queste quattro distinzioni, anche con accenti diversificati e originali rispetto alle argomentazioni di Tommaso (pars IV, tit. 14). Nell’Opera a ben vivere, invece, il vescovo fiorentino si concentra, in chiave eminentemente parenetica e senza addentrarsi nella terminologia specifica, sulla polarità circa il timore elaborata da Agostino, il quale distingueva fra desistenza dal peccato per paura della pena e disposizione a non più peccare per via d’amore.

Onde sono molti, che si partono dal peccato per paura dello inferno: la qual cosa, poniamo che sia cominciamento di bene, non è però perfetta; però che, come dice Santo Augustino, «invano s’astiene dal peccato chi per paura non pecca»: però che la mala volontà è dentro, e seguiterebbe l’opera, se non temesse la pena. Con amore dunque è da guardarsi dal male, e non per paura di pena; né eziandio, che più dirò, per isperanza di premio. E da poi che per questo modo ci siamo partiti dal male, è da aiutarsi, per modo che non caggiamo più. E così, come per via d’amore ci siamo partiti dal male, così per esso amore è da mantenerci nel bene, e sempre crescerlo; insino a tanto che pervegniamo al secondo grado di far bene. Or bisogna dunque, dopo la confessione fatta, per non ricadere più nel male, che la prima cosa che abbiamo a fare, si è di stabilire l’animo nostro a mai più non peccare” (pp. 26-27).

Nella sintesi della prima parte dell’Opera a ben vivere Antonino parla esplicitamente di timore amoroso: “Dallo amore di Dio, si perviene in una santa reverenza paterna verso Lui; per la quale entra nell’anima uno timore amoroso, che piuttosto vorrebbe l’uomo morire, che mai più offenderlo: per lo quale tale timore, l’uomo si parte da ogni male, e da ogni peccato” (p. 88).

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