La Parola che ci fa nuovi, La Parola da cuore a cuore, La Parola che scava (Brescia 2004-2006). A proposito delle omelie di don Averardo Dini.
di Gianni Cioli · Offro in anteprima su Mantello della giustizia il mio contributo ad una miscellanea in memoria di don Averardo Dini (1924-2016) di prossima pubblicazione ad inizio anno, nel quinto anniversario dalla morte.
Per ricordare questo prete fiorentino che ho conosciuto come parroco ed educatore ho pensato di riprendere in mano i tre volumi delle omelie festive degli anni A, B, e C editi dalla Queriniana nel 2004, 2005 e 2006, e intitolati rispettivamente La Parola che ci fa nuovi, La Parola da cuore a cuore, La Parola che scava.
Don Averardo, che aveva indubbiamente un talento notevole per la scrittura, è stato in realtà autore di tanti altri libri di taglio spirituale. Ho voluto tuttavia soffermarmi sulle sue raccolte di commenti alla liturgia della parola domenicale per ritrovare un po’ di quel nutrimento dello spirito con cui sono cresciuto nella parrocchia di San Piero in Palco da quando don Averardo vi arrivò nel 1966 fino al 1977, anno in cui entrai in seminario. Si è trattato, in effetti, per me che ero nato nel 1958, di undici anni decisivi attraverso i quali sono passato dalla condizione di bambino a quella di maggiorenne (almeno anagraficamente) e durante i quali ho riconosciuto la mia vocazione maturando la mia scelta di vita. A distanza di tanti anni penso di poter dire che il nutrimento spirituale offertomi dalle omelie di don Ave (come lo chiamavamo noi ragazzi) sia stato determinante per orientarmi a voler essere cristiano in un mondo che si profilava sempre più post-cristiano, e a decidere di farmi prete per annunciare il Vangelo in questo mondo.
Certo, ci saranno stati di sicuro anche altri elementi che hanno fatto maturare la mia scelta di vita, come gli incontri di catechismo e poi di formazione giovanile, o come i colloqui nella direzione spirituale, ma certo la predicazione sulla Parola, ascoltata con regolarità nel giorno del Signore, peraltro con una certa attenzione grazie anche alla capacità di chi parlava di non annoiare, può aver fatto la differenza.
Sento dunque di dover davvero ringraziare don Ave per avermi aiutato a voler essere cristiano attraverso alla sua predicazione.
Scorrendo le pagine dei tre volumi, che egli ha redatto dopo il suo ritiro dal ministero di parroco, quasi come testamento spirituale, ho riassaporato il suo stile e i suoi contenuti teologici, densi ma mediati con essenzialità.
Se volessimo usare una metafora cucita su misura sulla persona di don Averardo, a partire dal suo aspetto fisico, si potrebbe dire che le sue omelie erano (e restano nella redazione scritta a nostra disposizione) un po’ come lui. Egli aveva in effetti un fisico estremamente asciutto (diceva spesso con spiccata autoironia “io sono un prete rifinito”), ma era dotato di una struttura ossea piuttosto robusta (tale da far risaltare forse ancor di più la sua magrezza). Così le sue prediche erano anch’esse “asciutte”, cioè scarne ed essenziali nelle parole, ma sostenute da una struttura teologica solida.
La scelta di comunicare mirando alla riduzione delle parole piuttosto che alla loro moltiplicazione è forse in parte legata al gusto letterario antiretorico affermatosi nella cultura del dopoguerra, tipico della generazione degli anni ’20 (a questo proposito mi tornano fra l’altro in mente alcune considerazioni estetiche che faceva mio padre quando da ragazzo ero alle prese con lo studio della lingua italiana), un gusto ben presente anche in altre figure della Chiesa fiorentina, come don Lorenzo Milani, per citare un esempio di spicco. Ma, come per il priore di Barbiana, anche per il parroco di San Piero in Palco la ricerca di una prosa essenziale non è stata certo un fatto meramente estetico, bensì uno stile funzionale a comunicare una Parola che «non ha da accarezzare le orecchie», ma «ha da scavare nel cuore per piantarvi il seme del tempo eterno».
L’intento del parroco di San Piero in Palco era quello di arrivare al cuore delle persone perché è là che il Vangelo deve trovare accoglienza per portare frutto. Ma per giungere al cuore del destinatario la Parola deve passare necessariamente dal cuore del mediatore ed albergarvi, anzi deve trovarvi stabile dimora.
Di questo don Averardo era profondamente convinto, come confessa nella prefazione al secondo volume della raccolta: «Durante il mio lungo percorso pastorale mi sono sempre più tenacemente convinto che è necessario dissodare il cuore più che la mente, perché il cuore è il campo in cui il seme evangelico produce i suoi frutti. Raccontare il vangelo, filtrato da un cuore innamorato, è stata la passione più esaltante e più gratificante della mia vita.
Quando parla il cuore si trova sempre un altro cuore che apre ad accogliere il messaggio che viene dall’Alto, giacché l’uomo cerca le ragioni del cuore perché sono più limpide delle ragioni dell’intelletto. Ciò vale per chi annuncia e anche per chi ascolta. Da questo nasce un impegno forte e preciso: “Come i fedeli si passano da mano a mano l’acqua benedetta, così da cuore a cuore devono passarsi la parola di Dio” (Charles Peguy). Anche e la Bibbia è dello stesso parere: “Raccontatelo ai vostri figli e i vostri figli ai loro figli e i loro figli alla generazione seguente” (Gl 1,3)» (La Parola da cuore a cuore. Omelie festive dell’anno B, Brescia 2005, 3).
Mi pare che questa impostazione corrisponda, fra l’altro, a quanto Papa francesco, nella Evangelii gaudium, ci insegna a proposito dell’omelia. Essa deve essere innanzitutto «breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione», affinché «la parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro» (EG 138). Ma soprattutto deve scaturire dall’accoglienza della Parola nel cuore del predicatore per giungere efficacemente al cuore dei fedeli: «Se è vivo questo desiderio di ascoltare noi per primi la Parola che dobbiamo predicare, questa si trasmetterà in un modo o nell’altro al Popolo di Dio: “la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Mt 12,34). Le letture della domenica risuoneranno in tutto il loro splendore nel cuore del popolo, se in primo luogo hanno risuonato così nel cuore del Pastore» (EG 149).
Vorrei concludere questo mio ricordo con le parole, al contempo toccanti e autoironiche, scritte da don Ave nella prefazione al terzo volume della raccolta: «Posso considerare tutto questo come il mio testamento – depositato nei giovani anni del terzo millennio – in attesa di un’alba meravigliosa che appaghi pienamente le inquietudini del cuore, avendo la consapevolezza di essere stato solo «un flauto di canna che il Signore ha riempito di musica» (Tagore). Saluto i miei lettori con una parola che ha il sapore della gioia: Ave (che significa ‘rallegrati’) ed è anche il ‘mio nome rinsecchito da sempre’» (La Parola che scava. Omelie festive dell’anno C, Brescia 2006, 4).