Abitudine e consuetudine
di Andrea Drigani · Qualche tempo fa un ecclesiastico, secondo quando riferiscono alcuni giornali, ha detto che, a causa del covid-19, la gente si sarebbe «disabituata» ad andare in chiesa. Tale affermazione per quanto attiene al precetto festivo, se effettivamente pronunciata, è da ritenersi inappropriata se non addirittura sbagliata. L’abitudine è una ripetizione di atti, compiuta in modo più o meno volontario, che in sè non ha valenza morale, ma forse psicologica e talvolta psicopatologica, rientra in un atteggiamento esistenziale sovente influenzato. Pertanto l’abitudine può essere negativa o positiva a seconda delle circostanze esterne. Tant’è che si parla di buone o di cattive abitudini. Ma il dovere di partecipare alla Santa Messa non può essere un’abitudine, bensì una consuetudine. Lungo il corso della sua storia la Chiesa ha dimostrato sempre una considerazione particolare per la consuetudine («ius non scriptum») poiché ritenuta anteriore e più perfetta della legge scritta. I requisiti che l’ordinamento canonico prevede per il legittimo formarsi della consuetudine sono: che non sia contraria al diritto divino naturale o positivo, vi sia l’intenzione di obbligare, esista una comunità capace di ricevere una legge, infine l’approvazione o il consenso, ancorchè tacito, del Vescovo diocesano o del Romano Pontefice. La consuetudine, com’è noto, riguardo all’effetto giuridico può essere: «contra ius» (contraria al diritto vigente), «praeter ius» (che induce un nuovo obbligo giuridico al di fuori del diritto vigente), «secundum ius» (il modo assunto dalla comunità per osservare il diritto vigente). Francisco Suarez (1548-1617), esimio teologo e canonista, insisteva assai, riguardo alla consuetudine, sulla «receptio communitatis», osservando che il comportamento consuetudinario di tutta una comunità corrisponde, di solito, all’intuizione di nuovi valori, più stimabili di quelli contenuti nella legge positiva vigente, provocando così la sua sostituzione da parte di un legislatore competente e saggiamente flessibile. Suarez vedeva nel diritto consuetudinario il punto d’incontro tra il popolo e l’autorità. Qui non stiamo parlando di un popolo qualsiasi o di una qualunque comunità, ma del popolo di Dio e delle comunità ecclesiali. Occorre, tuttavia, avere sempre presente l’affermazione di Sant’Agostino per il quale non si salva, anche se rimane incorporato nella Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane, sì, in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore». Per la tradizione canonica orientale una consuetudine della comunità cristiana, nella misura in cui risponde all’attività dello Spirito Santo nella Chiesa, può ottenere forza di legge (cfr. can.1506 § 1 CCEO). Tornado all’obbligo di partecipare alla Messa nelle domeniche e nelle feste di precetto, giova ribadire che è espressamente previsto dal can.1247 CIC, come pure è prevista l’eccezione «gravi de causa» di cui al can. 1248 § 2, da applicarsi tenendo conto dell’equità canonica. L’osservanza del precetto festivo costituisce, dunque, una consuetudine «secundum ius» che, come dice il can. 27 CIC, è ottima interprete della legge. E’ fondamentale, però, raccomandare all’attenzione di tutti, il predetto richiamo agostiniano sull’appartenenza alla Chiesa, che non può essere soltanto «corporale», cioè formale, ma soprattutto «cordiale», cioè sostanziale.