di Carlo Nardi • C’è in me una certa trepidazione nel far leggere il Cantico dei cantici a giovanottelli, talora fidanzatini, ma anche a prossimi al sì. Infatti mi domando che cosa penseranno di quel poemetto tutto speciale tra gli scritti sacri. Non credo, però, che pioni o baccalà, come si diceva, si scandalizzino in merito. Piuttosto l’edificante scrittura biblica potrebbe condurre, al di là degli intenti dei biblisti, allo sghignazzo della parodia? E che sia il caso di giovinetti di fronte a una specie di Nencia da Barberino con i suoi «occhi tanto rubacuori, / che la trafiggere’ con egli un muro»? Autore il birboncello niente meno Lorenzo il Magnifico (str. 5,1-2, in Poesie, a cura di L. Sanguineti, Milano 2002, p. 58. cf. pp. 57-63)? In realtà, non ho mai percepito situazioni incresciose.
Ma i Padri dell’antichità ci possono dire qualcosa? Nilo di Ancira, monaco del quarto secolo, era preoccupato: che una lettura del Cantico fosse fomite di pericolose concupiscenze al punto di ritrovarsi di fronte ad una canzonaccia, salve le interpretazioni teologiche e morali (Commentario al Cantico prologo 1: Sources chrétiennes [SCh] 403,112-114)?
Gregorio Magno (520 circa – 604, papa dal 598) prende altre vie. È chiaro che ‘poppe’ e ‘cosce’ del Cantico suscitavano ben diversi significati. Il papa però, con serena consapevolezza, mirava a convertire, per così dire, i ‘bollenti spiriti’ in ‘casti pensieri e santi desiderj’. Anche Gregorio temeva l’irrisione della lettera. Tuttavia, se la veneranda Pagina parlava di ‘gote’ e di ‘mammelle’, e di calientes ‘baci’, il pontefice si affrettava a difendere, a mo’ di teodicea, la gran ‘misericordia d’Iddio’. E il santo Padre ci dice il perché: l’Onnipotente, «per pungolare il nostro cuore ad amare l’amor sacro, fa sì che l’uomo si interessi anche di espressioni del nostro amore turpe (turpis amoris nostri)» (Esposizione al Cantico dei Cantici 3. cf. 1-4: SCh 314,70. cf. 68-76). Ossia non proprio da novizi? Anche se, per i nostri ragazzi, di ‘turpe’ c’è ben poco, ovvero di ‘brutto’. Tant’è che il turpis latino è un che di tipo estetico, come dire la pinguedine ad una certa era.
Eppure la Bibbia ha meno preoccupazioni dei suoi intrepreti. I padri della fede ventura mettevano le mani proprio su certe parti allo scopo di solennizzare moralmente in rapporti di eredità (cf. Gen 24,2). Del resto non si sente dire: Ci rimetterei …!? E si capisce dove e perché, e con debiti scongiuri (o meglio indebiti) per un supplemento di vitalità.
E ancora: «dalla coscia di Giacobbe», de femore Iacob nella versione Vulgata, «erano uscite settanta vite» umane tra figlioli e nipoti e nipotini. Infatti erano entrarti in Egitto per raggiungere Giuseppe, fratello o zio, il quale, come si sa, s’era fatta una bella posizione. Insomma ‘coscia’ quella del patriarca, la quale proprio ‘coscia’ non doveva essere stata (Es 1,5).
Ma ci sono altri pensieri. Il senso morale, la distinzione tremendamente umana fra bene e male con i relativi dettami di un’aperta coscienza e d’una legittima legge, non può venire meno in questioni di sesso: a meno che si sguazzi nello squallore del lupanare. Invece, ben diversa è la turpitudine dal semplice parlar di pudenda.
Difatti il padre Adamo e la madre Eva «erano nudi e non ne provavano vergogna» (Gen 2,25). E mi dispiace che nei libri liturgici quest’ultimo stico non appaia. È chiaro che in chiesa si può opportunamente promulgare qualcosa di più di quel che è strettamente dovuto. Però con la lettura pubblica di Genesi 2,25 si sarebbe dato ai fedeli ulteriori motivi per fugare l’antica ‘eresia del male’, e sempre pullulante: intendo lo gnosticismo, come fosse ‘uno, nessuno e centomila (C. Nardi, Vangeli apocrifi. Testi tendenziosi: la produzione gnostica, in Apocrifi del Nuovo testamento, a cura di Anna Lenzuni, Bologna 2004, pp. 65-109)
Ci conferma invece la dottrina della Gaudium et spes (47-51) e dei papi seguenti con enclitiche e insegnamenti: il cristallino Paolo VI, il pacato e felice catechista Giovanni Paolo II, Benedetto XVI nel rapporto tra carità ed eros, e papa Francesco dai molti bagliori d’amore (cf. C. Nardi, Dal tedesco ‘Taufe’. Tuffi e battesimo tra estetica ed etica, in Giornale di Bordo di storia, letteratura e arte terza serie 38 [2015], pp. 21-28).
E tutto nel Cantico esprime splendori. Lui si compiace del corpo di lei, come Adamo di fronte ad Eva e viceversa, e insieme agli amanti scendono e salgono con i loro corpo (Ct 2,25) per farsi ancor più luminosi grazie a risorse d’amore. E in particolare ecco le protuberanze di lui (Ct 5,8-16), come quelle d’un Ganimede (Ganymédes), appunto ‘dalle splendide membra’, effettiva etimologia gánysthai e médea, che Senofonte proprio nel rifiutare, sembra convalidare (Simposio 8,30): è l’attuazione dei sinonimi ‘fallo’ greco e ‘fascino’ latino (Petronio 92,9). E poi i misteriosi e conturbanti segreti di lei (Ct 4; 6,3-8; 7,1-8), come la ridanciana Baubò che, tirandosi su la veste, aveva suscitato una liberante risata, forse inventando la danza del ventre (Apollodoro, Bibliotheca I,5,30).
Il Cantico sembra darne conferma: per lei è lui, perché è «scelto (bâhûr) tra i cedri», è un ‘fusto’ più di ogni altro (Ct 5,15), «vessillato (dâgûl) tra migliaia» (Ct 5,10), con un «vessillo» tutto «suo» (diglô) (Ct 2,4), ‘vessillo’ (degel) che si staglia tra immagini arboree: uno ‘stendardo’, ma del tutto speciale, come si può capire. E c’è, ipotetico, un altro coetaneo «scelto» (bâhûr) per relazioni sociali e sessuali, e per godersi saggiamente la vita al cospetto di Dio: è invito di un senescente, ma non invidioso delle gioie di un ragazzo (Ecclesiaste 11,9) (cf. G. Ravasi, Qohelet, Cles [Trento] 1997, pp. 335-339; L. Mazzinghi,‘Gioisci, giovane, nella tua giovinezza!’ Il libro del Qohelet e la gioia del vivere, in Parola, spirito e vita 44 [2001], pp. 41-54; Id., ‘Ho cercato e ho esplorato’. Studi su Qohelet, Bologna 2001, pp. 276-281). Ben dotato è anche il «giovane scelto», perché «scelto» (bâhûr) alla comunità e alla milizia, che, secondo Isaia, «possiede una ragazza (betûlâh)», ‘inabitandola’, come traducono i Settanta. «Sposo, gioisce sopra (‘al) la sposa» in un esaltante amplesso. Il giovanotto sui vent’anni, per così dire abile e arruolato, capace com’è di ‘inabitare’ una ragazza, è da figurarselo più pronto che mai per una ‘milizia d’amore’ (Is 62,5. cf. 4), come nella travolgente Lisistrata di Aristofane (3-24.99-101.124-148.830-966.1275-1256) (C. Nardi, Eros: coazione a ripetere o libero dono. Patristica tra mito e logos, in Vivens homo 13 [2002], pp. 229-257; cf. L. Mazzinghi, Cantico dei cantici. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo 2011).
A questo punto mi piace pensare a Emmanuel Mounier (1905-1950): ventottenne, si esprime alla fidanzata Paulette, poi moglie, con una lettera del 13 marzo 1933: «L’amore umano insegna molte cose riguardo alle vie dell’amore di Dio» (Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza, a cura di D. Rondoni, Milano 2005, p. 42).