di Mario Alexis Portella • Il governo degli Stati Uniti ha recentemente manifestato pubblicamente e con esultanza la sua soddisfazione per la vittoria militare riportata sull’ISIS in Iraq e in Siria, nonostante la piccola presenza dei militanti che ancora mantengano una presenza nel territorio siriano. Il presidente Donald Trump ha dichiarato: <<Grazie alle forze armate degli Stati Uniti e alla nostra collaborazione con molte delle vostre nazioni, sono lieto di annunciare che gli assassini assetati di sangue conosciuti come ISIS sono stati cacciati dal loro territorio una volta detenuti in Iraq e in Siria>>.
L’impressione di molti in Occidente è che, a seguito della sconfitta del “califfato” islamico, le minoranze religiose in Iraq, in particolare i cristiani, non siano più perseguitate. Almeno questa è la tesi dei media mainstream. Ma è una tesi ben lontana dalla realtà. Le persecuzioni, di fatto, hanno assunto una nuova forma anche se i persecutori hanno per lo più il medesimo volto e la medesima mente. Per esempio, ex-membri dell’ISIS si sono inseriti in posizioni-chiave di governi locali e nelle milizie sciite che controllano le città e i villaggi in cui vivono i cristiani. Il problema politico più grave consiste nell’assenza, almeno da parte irachena, di un’autorità in grado di operare, con opportune iniziative, un cambiamento di rotta che possa garantire la sicurezza dei cristiani ed una pace stabile in quel territorio martoriato. Ma non è solo un problema di assenza di autorità. E’ anche l’atteggiamento e l’impegno pro-cristiani degli Stati, in particolare occidentali, più potenti e, di conseguenze, più influenti sulla politica internazionale. Basta vedere i vescovi cattolici statunitensi, i quali non solo hanno assolto l’Islam dai crimini commessi in nome della religione ma, di fronte al genocidio dei cristiani ispirato dai testi islamici, insieme a tanti politici progressisti, hanno promosso o sostenuto la campagna contro l’islamofobia, cioè la criminalizzazione di qualsiasi critica ragionevole. E forse ancor più scoraggiante è il risultato di un sondaggio condotto da “Aiuto alla Chiesa che Soffre” in USA, McLaughlin & Associates: i cattolici americani sono più preoccupati del riscaldamento globale che della persecuzione contro i cristiani.
Avendo recentemente visitato la città di Mosul devastata dalla guerra – una delle prime regioni del mondo ad accogliere il messaggio del cristianesimo — ho avuto l’opportunità di parlare con un certo numero di cristiani residenti nel settore di Niniveh, nelle altre città e villaggi che circondano Mosul. Essi concordano sul fatto che la drastica riduzione della popolazione, e direi quasi una desertificazione, post-ISIS, sia sostanzialmente dovuta alla mancanza da parte degli Stati Uniti e di altri paesi di un accorto, lungimirante piano per continuare o, dove occorra, iniziare la ricostruzione nelle terre un tempo abitate dai cristiani. Ci sono anche i profughi che vivono in condizioni disperate in affollati e malsani campi d’accoglienza, piano che, se posto in essere, permetterebbe loro di tornare e riprendere una vita da cittadini liberi. Mi limito ad un esempio, ma ne potrei portare molti altri: a Karamless oggi abitano solo trecento famiglie cristiane sulle oltre ottocento ivi stanziate prima dell’occupazione dell’ISIS; i gruppi sciiti, come gli Shabak, poiché ora sono più numerosi, si sono appropriati della quasi totalità degli spazi ancora utilizzabili provando ad imporre la legge e la cultura islamica. Altri che sono aiutati dai finanziamenti governativi per la ricostruzione delle case, si son pure insediati nelle proprietà dei cristiani. Il parroco di S. Adeo a Karamless, p. Thabet Habeb, mi ha detto che è in corso una lotta continua con il governo per cercare di conservare o riottenere le abitazioni e tutto ciò che era di loro pertinenza.
Un altro problema è stato il “rafforzamento” della rule of law che le milizie sciite e curde — alcuni curdi di Niniveh
sono yazidi — hanno sancito di propria iniziativa senza provvedere a garantire la “sicurezza” nelle città prevalentemente cristiane prima dell’Isis. Invece di operare al fine di conseguire quella stabilità indispensabile per la rinascita di un’ordinata convivenza, permettono che i cristiani siano vessati per motivi puramente religiosi, senza conceder loro alcuna possibilità di ricorrere al governo centrale iracheno. Anzi, il sindaco della città di Teleskof, Bassim Bello, che è cristiano, mi ha parlato delle difficili e pericolose battaglie ingaggiate affinché ai cristiani sia concesso di riaprire, dopo averle messe in sicurezza e se possibile restaurate, le loro chiese e perché vengano loro riconosciuti dai governi locali e centrale pari diritti con l’eliminazione di ogni sorta di discriminazione. Ed anche a Erbil, la capitale del Kurdistan, che è autonoma dal governo centrale iracheno e che è forse la regione più sicura di tutto l’Iraq, molti cristiani subiscono soprusi di vario genere: le donne cristiane sono importunate perché non indossano la hijab (la sciarpa che copre la testa) e i curdi ubriachi di notte sventagliano colpi delle loro armi per riaffermare la loro supremazia: e questi sono solo due esempi, e non i più gravi, di quanto precaria sia la situazione in una città in una piazza nella quale si trova una statua della Vergine Maria.
I cristiani iracheni, i giovani in particolare, e gli occidentali che lavorano in Iraq per ripristinare la stabilità, mi hanno espresso tutta la loro sfiducia nei politici, sia occidentali, soprattutto statunitensi, che iracheni. Essi sono convinti, e lo affermano con forza, che i governanti delle varie potenze siano più interessati ai petrodollari che ai diritti umani.
L’unica luce in questo desolato panorama è che i cristiani iracheni conservano una forte volontà di continuare a combattere per la loro fede ed i loro diritti, con la speranza che il loro esempio possa portare altri iracheni, indipendentemente dalla religione professata e dall’etnia, al conseguimento di un costante rispetto reciproco. Alcune chiese distrutte durante la guerra con l’ISIS sono state riaperte al culto, nonostante le minacce scoraggianti e gli ostacoli frapposti dai loro connazionali musulmani. E’ doveroso, qui, ricordare che l’arcivescovo cattolico caldeo di Erbil, Basar Warda, alcui anni fa ha fondato l’Università cattolica di Erbil con la speranza che essa possa fornire un’istruzione superiore ai cristiani iracheni, di modo che essi possano non solo rimanere in Iraq, ma costruirvi un futuro più luminoso in un clima di pace e sicurezza. Se gli Stati Uniti e le altre Nazioni, e alcuni membri della gerarchia cattolica seguissero più seriamente e senza secondi fini questa fase della ricostruzione irachena, ci sarebbe una reale possibilità d’instaurare un’era nuova non soltanto sul piano politico-economico ma anche su di un piano religioso tale che possa garantire il diritto d’esistenza, di pratica e di diffusione alla fede cristiana.