Il diritto consuetudinario e l’influsso dello Spirito Santo nel modo spontaneo di una comunità di fedeli di governarsi
di Francesco Romano • Consuetudine è un concetto con significato a volte controverso che capita di sentire pronunciare racchiuso nella frase: “si è fatto sempre così”, per giustificare comportamenti ormai obsoleti e privi di senso che dovrebbero sopravvivere per una ineluttabile forza di inerzia.
Appena cerchiamo di approfondire la conoscenza allargando lo sguardo sul termine come categoria giuridica scopriamo un mondo di relazioni che trovano la ragion d’essere all’interno del tessuto sociale con le proprie finalità da realizzare. In questo caso la consuetudine quale fonte di produzione normativa, regolando la vita di una comunità è di sua natura razionale in quanto serve al consesso sociale per il raggiungimento di un determinato fine per cui si è costituita.
Nel sistema giuridico del diritto romano la consuetudine era fortemente radicata essendo normalmente la fonte da cui scaturiva la legge, da qui il brocardo secondo cui consuetudo est optima legum interpres.
Storicamente per il Popolo dell’Alleanza il sistema consuetudinario non ha trovato affermazione perché veniva visto in contrapposizione all’apparato normativo che discendeva direttamente da Dio quale unico Legislatore, mentre la consuetudine nella sua origine scaturisce dall’esperienza umana.
La Chiesa fin dalle sue origini si fa erede dell’esperienza giuridica consuetudinaria del mondo romano. Il diritto umano che promana dall’Autorità della Chiesa si armonizza con il diritto consuetudinario che si origina dal comportamento costante di una comunità favorendo l’inculturazione del messaggio evangelico e il successo della diffusa penetrazione missionaria con il progressivo adattamento del diritto universale alle più svariate esigenze pastorali presenti nel mondo. Si deve a Gregorio IX nel 1234 l’ufficializzazione nel sistema giuridico della Chiesa del diritto consuetudinario con la decretale Quum tanto (X, I, 4, 11).
Nel corso dei secoli, soprattutto in epoca moderna in cui si è affermato il processo di codificazione, il fenomeno consuetudinario ha dovuto fronteggiare anche posizioni dottrinali scettiche, o addirittura negazioniste come l’illuminismo razionalista secondo cui la legge scritta era l’unica forma che potesse garantire la certezza del diritto da renderlo immune da un uso arbitrario. Anche nella Chiesa sorsero posizioni timorose che il Popolo di Dio con l’affermarsi del diritto consuetudinario venisse sottratto alla legittima Autorità, ma anche vedendo nella consuetudine praeter legem il rimedio per supplire a una eventuale legge lacunosa.
Il fenomeno consuetudinario, a motivo del suo fondamento teologico, solo nella Chiesa ha mantenuto fino a oggi una posizione di rilievo sebbene l’autorità gerarchica, e non la volontà popolare, sia sempre stata la fonte di produzione normativa.
Il fondamento teologico trova una chiara illustrazione nella Costituzione Apostolica Lumen Gentium dove il Popolo di Dio, per il sensus fidei che lo Spirito Santo suscita e sorregge, è abilitato a cogliere la verità di fede e sotto la guida del Magistero, di quanto ha intuito “con retto giudizio penetra più a fondo e più pienamente l’applica alla vita” (LG 12).
L’applicazione pratica alla vita di quanto il Popolo di Dio, cioè la Chiesa intesa come universitas fidelium, intuisce in forza del sensus fidei viene letta come fonte di produzione normativa di natura consuetudinaria. Il sensus fidei dei fedeli si salda con il sensus Ecclesiae percepito come la totalità dei fedeli. Il dato rivelato trova concretezza con quello normativo per mezzo della consuetudine. Siamo già in grado di affermare che l’applicazione pratica di quanto ha avuto origine dal sensus fidei fidelium converge per analogia con la definizione di consuetudine del can. 23. “Ha forza di legge soltanto quella consuetudine introdotta da una comunità di fedeli che sia stata approvata dal legislatore”.
La reiterazione di un comportamento consuetudinario, espressione della communio fidelium, si forma intorno al sensus fidei fidelium. Da qui scaturisce l’intenzione della comunità di introdurre un nuovo diritto, il così detto animus iuris inducendi, al quale vuole vincolarsi. Il consenso del Legislatore si lega con il consensus fidelium, gli riconosce il carattere comunionale e in questo rende obbligante la consuetudine per realizzare il fine salvifico. Nei comportamenti ripetuti e giuridicamente vincolanti il legislatore, oltre al carattere comunionale, ne riconosce l’utilità sociale e salvifica che si radica nell’Incarnazione e nel mistero pasquale.
Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali rende ancora più esplicita l’azione dello Spirito Santo ponendolo a fondamento della consuetudine: “Una consuetudine della comunità cristiana, nella misura in cui risponde all’attività dello Spirito Santo nel corpo ecclesiale può ottenere forza di legge” (can. 1506 §1). In altre parole, la presenza dello Spirito Santo nella comunità suscita comportamenti conformi al volere divino. Tuttavia, il valore normativo non può discendere dalla sola prassi, ma l’intervento della competente autorità ecclesiastica è chiamata a discernere se la consuetudine è razionale in ordine al bene della comunità.
All’origine del fatto consuetudinario c’è la prassi segnata dal comportamento stabile di una comunità di fedeli che l’introduce come consuetudo facti. L’oggetto della consuetudine viene approvato dal legislatore con un atto di natura amministrativa, non legislativa, perché da esso non nasce una legge, ma una consuetudine che di fatto già esiste. La semplice osservanza di una comunità di fedeli già costituisce una consuetudine di fatto, ma l’approvazione del legislatore cambia solo il carattere giuridico, non l’oggetto, divenendo consuetudo iuris, diritto vigente di quanto era già stato introdotto da quella comunità di fedeli come comportamento stabile. Infatti, l’approvazione non richiede una promulgazione, come per la legge, ma la semplice pubblicazione, in quanto il contenuto della consuetudo facti è già noto alla comunità.
Il comportamento consuetudinario di una comunità con l’approvazione del legislatore ottiene forza di legge se è razionale, cioè se realizza il bene comune dei fedeli, se è socialmente utile e di normale adempimento, non ultra vires.
Una consuetudine contra legem può assumere il carattere della ragionevolezza per una determinata comunità se il Legislatore la tollera per il suo bene facendola prevalere rispetto alla legge in vigore, come se si trattasse di una implicita abrogazione. Mai, però, una consuetudine contraria a elementi costitutivi di un atto o di un istituto può essere riconosciuta razionale perché determinerebbe la deformazione della loro struttura giuridica (cann. 86 e 124 §1). Una consuetudine contra legem espressamente riprovata dal Legislatore non potrà mai assumere il carattere della razionalità perché in nessun modo può rispondere al bene di una comunità e mai potrà essere fatta rivivere in futuro. La riprovazione non è una proibizione. Una consuetudine semplicemente proibita di per sé è illecita, ma non è irrazionale e può rimanere in vita se centenaria o ab immemorabili, oppure se il Codice lo consente in modo espresso.
Anche negli istituti religiosi la consuetudine secondo, contro e fuori della legge può entrare a fare parte del diritto proprio, purché la comunità, sia capace almeno di ricevere la legge (can. 26). In questo senso il diritto consuetudinario può formarsi negli istituti centralizzati, ma anche a livello di province. Ciò vale anche per i monasteri sui iuris e gli istituti a carattere federale. Sono escluse le singole comunità religiose che pur essendo ipso iure persone giuridiche non sono capaci di ricevere una legge e quindi di introdurre una consuetudine.
Riguardo a una consuetudine nell’ambito del diritto proprio previste dal can. 587 §4, la semplice osservanza di una comunità capace di ricevere una legge può dare vita a una consuetudo facti, ma perché diventi consuetudo iuris per la sua approvazione è richiesto l’intervento dell’Autorità competente. Se si tratta di consuetudine che deve entrare nel diritto proprio di rango superiore, come il Codice fondamentale (can. 587 §1-3) l’approvazione della consuetudine apparterrà alla Sede Apostolica o al Vescovo diocesano a seconda della dipendenza dell’istituto. Se la consuetudine tocca il diritto proprio di rango inferiore come i regolamenti, i direttori ecc. (can. 587 §4), può essere approvata dal Superiore collegiale, cioè il Capitolo generale o provinciale indipendentemente dalla potestà di cui gode, ovvero della potestà ecclesiastica di giurisdizione di cui godono gli istituti religiosi clericali di diritto pontificio (can. 596 §2) o della potestà comune quando non si riscontra anche uno solo dei suddetti requisiti (can. 596 §1). Il Superiore personale, cioè il Moderatore supremo o il Superiore provinciale, non ha competenza per l’approvazione a meno che non gli sia stata concessa esplicitamente dal Capitolo.
Quando una consuetudine è contraria o al di fuori del diritto proprio di un istituto religioso, spetta alla Sede Apostolica la competenza di intervenire su di essa. Per gli istituti di diritto diocesano spetta al Vescovo diocesano la competenza di vigilare sulla formazione del diritto consuetudinario, fatta salva la giusta autonomia per ciò che tocca il diritto proprio non sottomesso all’approvazione del Vescovo diocesano.
La consuetudine permette al Popolo di Dio di organizzarsi in modo spontaneo con comportamenti che i fedeli ripetono ininterrottamente nel tempo e ai quali intendono obbligarsi per la capacità che hanno di sentire ciò che è razionale e giusto. Di fronte alla realtà che di fatto ha originato la consuetudo facti, il Legislatore ne riconosce la razionalità, quale consuetudo iuris, elevandola al rango di fonte di produzione normativa dove è presente l’opera dello Spirito Santo che guida i fedeli nel prendere parte all’edificazione del Corpo Mistico.