La lingua del governo

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di Marco Tarallo · La nuova maggioranza politica uscita dalle elezioni di settembre ha dato spazio nuovo alle destre. La loro vittoria elettorale permette ora di vederne in modo più evidente i connotati, di comprenderli. In particolare, sono rimasto colpito dal tipo di linguaggio cui da allora danno risonanza. Se riprendiamo gli interventi, le interviste, i discorsi ai diversi livelli, vediamo rincorrersi significanti simili e ripetuti: (non) cedere, (non) indietreggiare, (non) fuggire, (non) abbandonare, tradimento, patria e nazione, merito, eroi, umiliazione, sacrificio, coraggio, testa alta, devianza, vittima, fare, libertà, sovranità. Vi è ovviamente la compresenza del lessico comune a tutta la società politica e alle contingenze, le parole menzionate sono invece caratteristiche. Queste parole, le loro varianti e i loro derivati si ripresentano puntualmente nelle espressioni dei membri del governo, del sottogoverno, della maggioranza parlamentare. L’insistenza su parole di questo tipo è tale da formulare dei veri e propri nuclei semantici interni al mondo linguistico della maggioranza parlamentare. Wittgenstein insegnava che è la lingua il mondo che abitiamo, e soffermarsi sulla lingua delle destre permette una qualche comprensione del mondo che vivono e pensano, in cui si proiettano, i confini che il pensiero traccia della realtà. Questo è vero per qualsiasi raggruppamento culturale lato sensu, il quale produrrà un linguaggio conforme alle proprie aspettative e alle proprie determinazioni, disegnando a loro volta queste nei termini del linguaggio che sarà in grado di creare.

Il linguaggio delle nostre destre vittoriose in questi due mesi mi ha colpito particolarmente. È forte, cogente, efficace. È capace di installarsi nell’immaginario e nell’abitudine. Di più, personalmente, eccitava in me qualcosa di familiare ma dimenticato, mi sono dovuto chiedere più volte dove avessi già sentito qualcosa del genere. Dopo il telegiornale della sera me lo chiedevo per l’ennesima volta quando mi misi a guardare un vecchio film. Si trattava di Ladyhawke, del 1985. Era la storia d’amore e d’avventura di un cavaliere e di una nobildonna, condannati da un malvagio vescovo infatuato di lei a una maledizione, frutto di un patto con il diavolo. Di giorno lei si sarebbe trasformata in un falco, di notte lui in un lupo, così da non poter vivere il loro amore ed essere “sempre insieme, eternamente divisi”. Lentamente e inconsciamente il modo di esprimersi dei personaggi ha preso a somigliarmi sempre di più a quello ascoltato al telegiornale. Alla fine del film ero diventato consapevole di quella familiarità che avevo dimenticata.

Le destre nostrane tendono a parlare come i romanzi cavallereschi. Non tanto quelli originali, ma quelli frutto del medievalismo ottocentesco, che è l’incontro della riscoperta del medioevo con l’affezione patriottica in seno all’atmosfera cultura romantica. Pensiamoci: un mondo ostile in cui i malvagi sono sempre vigili a tramare, dove solo la lotta di alcuni eroi virtuosi fa meritare la salvezza della comunità. Una comunità in ogni caso divisa in uomini comuni, onesti magari e di buoni sentimenti ma sempre al servizio subordinato dei nobili, i quali si contendono il vero campo del potere, delle virtù e del vizio, del futuro, del bene e del male. In questo mondo non ci sono mezze misure, non ci sono sfumature, le fragilità e le esitazioni sono di per sé dei cedimenti e delle debolezze. Non c’è spazio tra il tradimento e la rettitudine, tra la virtù meritevole, la giustizia, la luce e la malvagità corruttrice, l’ingiustizia e le tenebre.

Meloni stessa è stata paragonata dai suoi compagni di partito al Frodo del Signore degli Anelli, fantasy medievalistico cui tutta quella galassia è legata da tempo. Gli incontri giovanili di Fratelli d’Italia sono intitolati ad Atreiu, il co-protagonista della Storia infinita, altro classico del genere. Diventa evidente la presenza di è un legame sentimentale che cova in profondità fino a diventare culturale, infine di prospettiva politica, ideologica – nel senso della coloritura che diamo al mondo.

Un esempio pratico è quello del merito. La compagine governativa ha riproposto il tema in una serie di interventi pubblici ben noti, non ha mancato di chiarezza né di diffusione. Il merito è una qualità individuale che si lega al valore e allo sforzo del singolo. Lo stato e la scuola devono certamente fornire i mezzi per un “uguale punto di partenza” ma il risultato raggiunto riguarda la responsabilità della persona.

Tra le molte spiegazioni possibili di questa lettura del concetto di merito, non può essere assente l’evocatività dell’immaginario cavalleresco cui il governo pare così legato. In effetti il merito, inteso come sopra, è costantemente presente in quella letteratura: quante volte abbiamo letto dell’eroe che deve dimostrare una serie di qualità, meglio di virtù, per ottenere la salvezza per sé, la comunità, la donna amata?

In questo quadro l’operato dello stato, che dovrebbe essere correttivo delle disuguaglianze di partenza ma anche di quelle in itinere, rimane sullo sfondo. In passato e nei programmi attuali la classe politica ora al governo, al di là del riconoscimento formale del ruolo dello stato in campo educativo, non ha dimostrato particolare iniziativa. A fare freno non può non esserci anche la profonda convinzione che l’individuo debba cavallerescamente dare prova di sé, senza aiuti o favori, pena una macchia sul proprio onore.

Una memoria culturale così profonda e indietro nel tempo presenta, nella cultura delle destre, delle continuità pre-democratiche. Pur nel pieno inserimento nella logica democratica contemporanea, il sistema valoriale è fondato su valori antecedenti, i quali possono inficiare la piena attivazione delle potenzialità democratiche, e in definitiva costituzionali.

Completo il ragionamento tornando ancora sul concetto di merito. Le destre fanno valere la loro lettura in fede degli articoli 33 e 34 della Costituzione. In realtà la lettura di quegli articoli va completata almeno da due considerazioni. L’incipit ‘i capaci e i meritevoli’ fu una correzione fatta in sede costituente. I liberali proponevano infatti per la dizione ‘solo i capaci e i meritevoli’ ma furono ridotti a più miti consigli. La correzione assume in questo modo un significato inclusivo. La seconda considerazione è che gli articoli 33 e 34 sono, appunto, il trentratreesimo e il trentaquattresimo. Vanno letti alla luce degli articoli precedenti, che sono precedenti anche per priorità. Prioritari diventano dunque almeno i ‘doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’ (art. 2), la ‘rimozione degli ostacoli’ (art. 3), ‘il diritto al lavoro e le condizioni che rendano effettivo questo diritto’ (art. 4). Insomma, non si può chiedere a nessun cittadino di dimostrare il proprio valore, se non dopo averlo incluso pienamente nella comunità politica, economica e sociale, non in attesa che lo stato si adoperi in questo senso. Vediamo che il governo ha particolare fretta di promuovere il primo concetto, molto meno il secondo.

Nell’intervento all’inaugurazione dell’anno accademico a Pavia, il 5 settembre 2021, il presidente Mattarella pronunciò parole significative per una lettura pienamente democratica del merito: “Vorrei riprendere una considerazione fatta dalla rappresentante degli studenti poc’anzi, che ha posto in guardia dalla contrapposizione tra ricerca dell’eccellenza nella ricerca e nell’insegnamento e diffusione della conoscenza. Questa contrapposizione sarebbe inaccettabile, ma non può esistere, perché le due esigenze in realtà coincidono; l’eccellenza della conoscenza è garantita da una platea amplissima di coloro che accedono all’istruzione, alla conoscenza e alla ricerca. Una platea completa, totale, senza discriminazioni di alcun genere, consente l’emersione di talenti, di qualità che rimarrebbero altrimenti inespresse. La storia ci consegna le figure di tanti scienziati che hanno fatto le loro scoperte da autodidatti; ma quanto di più darebbero stati se l’istruzione fosse stata aperta davvero a tutti? Nella storia quanti talenti, quante capacità di uomini e donne sono rimaste inespresse? Perché non vi era la possibilità di accedere alla conoscenza, di renderla completa, senza esclusioni […]”.

Questa lettura rimanda all’accezione di merito non come solo traguardo individuale, ma come capacità dello stato di valorizzare tutti i profili offerti dalla cittadinanza. Il merito nella comunità democratica non è una vittoria individuale (gli scienziati autodidatti) ma il raggiungimento di una maturità collettiva (rendere la conoscenza completa e senza esclusioni) nella valorizzazione delle capacità presenti in tutti e in ciascuno. Tra un mondo cavalleresco dove meritare significa superare gli ostacoli posti dai cattivi, e una società democratica dove meritare significa essere incluso nell’istruzione e nel lavoro nello sviluppo delle proprie qualità, il primo è forse più romantico ma il secondo è preferibile per la giustizia che lo conduce. Dopotutto i paladini non lottavano per un mondo di giustizia, cioè per un mondo dove non ci sarebbe più stato bisogno di loro?

Infine una nota evangelica. Nel Vangelo il merito non è un concetto che abbia un senso. La sequela di Gesù non è un cammino fatto di dimostrazioni di valore individuale. Seguire Gesù significa ascoltare la Sua Parola e metterla in pratica, secondo i talenti, i doni che lo Spirito suscita in noi. Non è il mondo a essere malvagio, il mondo è creazione di Dio. Siamo noi che possiamo essere cattivi e possiamo decidere o meno per un’opera di quotidiana conversione di noi stessi. Non c’è merito, c’è accoglienza di un amore più grande, non vi è giustizia di punizione ma di misericordia. Non c’è merito, c’è il dono.

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