di Giacomo Funghi · Tutti condanniamo la guerra, tutti vorremmo che finisse, ma spesso ci dimentichiamo che la guerra è il più grande giro d’affari del mondo.
Adesso sembra facile parlare del mercato delle armi, è un argomento frequente nei dibattiti televisivi perché ora c’è la guerra e prima no. E invece prima sì. Prima, e ancora, continuano molte guerre e molte situazioni di crisi: su “L’atlante delle guerre e dei conflitti 2021” si può leggere che nel mondo c’erano quindici situazioni di crisi, tredici missioni ONU e trenta guerre nel mondo. La maggior parte dei conflitti si trovano in Africa e in Asia e, seppur molte zone siano più che povere e alla fame, i soldi per comprare armi, munizioni, missili ci sono sempre e come c’è chi compra c’è anche chi vende.
L’Italia nel biennio 2017-2019 si posiziona all’ottavo posto per l’esportazione di armamenti pesanti, mentre nelle armi leggere vantiamo, ignoranti del fatto, il primato assoluto. Ma non è solo questo. In Italia negli ultimi anni spendevamo di più in finanziamenti bellici che in istruzione e sanità (persino nel periodo di pandemia) sommati insieme. Una questione di priorità che, prima della guerra in Ucraina, non ha interessato il dibattito pubblico e che la politica non ha messo tanto in discussione. Ma adesso dopo tre mesi di guerra il mercato delle armi come va?
Mi permetto una premessa all’ovvia risposta. L’amministratore delegato, Richard Aboulafia, dell’azienda statunitense AeroDynamic Advisory a fine 2021 esponeva ai suoi soci che i rischi per la loro impresa era che “tutto questo si riveli un castello di carte russo e che la minaccia scompaia”.
Solo per portare degli esempi, negli ultimi sei mesi il prezzo per azione della Leonardo spa, azienda della difesa italiana, è cresciuto del 63,99%, mentre quello dell’azienda britannica BAE system è cresciuto del 36,78%. Se qualcuno avesse investito 100 000 euro nella Leonardo a gennaio oggi avrebbe 163 000 euro, tanti soldi in poco tempo.
La guerra costa: soldati, armi, mercenari; ma soprattutto porta grandi profitti perché se economicamente fosse un disastro nessuna grande nazione sarebbe disposta ad auto sabotarsi in questo modo.
Tutto ciò mi fa pensare che tipo di politica, nazionale e internazionale, è stata perseguita, di quale tipo di politica necessitiamo in questo momento, come trovare la pace, se effettivamente vogliamo la pace o se vogliamo solo guadagnare sulle speculazioni. Chi ci rimette sono i popoli coinvolti e i poveri ed è proprio di loro che la politica dovrebbe occuparsi.