di Samuele Cosimo Fazzi · Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha richiamato più volte la Chiesa ad aprirsi al mondo e ad uscire dal clericalismo, direzione già avviata negli anni ’60 con il Concilio Vaticano II. Si è aperto così un dibattito sul ruolo del laicato all’interno della comunità ecclesiale rispetto a quello riconosciuto al sacerdote; un ruolo, quello dei laici, che storicamente è stato considerato di secondo piano. Nel linguaggio comune è entrata una formula – la “gerarchia ecclesiastica”, intendendo papa, cardinali, vescovi e preti – che per quanto abbia un aggancio nella Lumen gentium (al cap. III), può essere usata per contribuire a creare un fossato tra “mondo dei laici” e “mondo dei preti”.
Pur essendo evidente che esista una struttura gerarchica di questo tipo, è doveroso fare alcune considerazioni:
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quando Gesù è vissuto e ha chiamato a sé apostoli e discepoli non ha instaurato principalmente un vincolo di subordinazione degli uni sugli altri, preferendo il concetto di comunione come quello caratterizzante l’essere nella sua Chiesa
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fin dalle sue origini la Chiesa ha sempre mantenuto la distinzione tra sacerdozio comune, che si riceve con il battesimo, e sacerdozio ministeriale, proprio di alcuni cristiani chiamati da Gesù ad assolvere determinati compiti specifici; è questa la distinzione nel nuovo testamento tra discepoli (seguaci del Signore) e apostoli (letteralmente “inviati”, cioè persone chiamate da Cristo ad annunciare la sua resurrezione)
Ecco allora che la concezione sviluppatasi nel corso della storia della Chiesa secondo cui il ministro di culto (che sia un prete o un vescovo) è più vicino a Dio rispetto ad un fedele laico appare una sovrastruttura rispetto alla realtà teologica, che riconosce piuttosto una distinzione di compiti all’interno della comunità, per quanto questi stessi compiti siano il frutto di una differenza d’essere (sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale). Il prete ha il compito di spiegare la parola di Dio ed amministrare i sacramenti, il laico pur non essendo un ministro ordinato è chiamato ugualmente a svolgere un ruolo attivo che si esplica in tanti modi; basti pensare a chi, ad esempio, svolge un servizio nella propria parrocchia, è impegnato nel sociale o svolge attività politica ispirata al vangelo (ES: Giorgio La Pira ed altri suoi compagni di partito formatisi in associazioni cattoliche come la Fuci). Potrebbe sorgere una domanda: se al giorno d’oggi è necessario aprirsi di più al laicato affinché questo assuma ruoli di livello all’interno della chiesa, allora perché non far scegliere alle comunità il proprio pastore (come avviene ad esempio nelle chiese protestanti)? Al netto del fatto, ovviamente, che si dovrebbe passare o prima o dopo all’ordinazione della persona scelta. Questa soluzione, si potrebbe pensare, verrebbe a scardinare non solo la concezione gerarchica della Chiesa, ma garantirebbe una sorta di democraticità all’interno della stessa. Il problema che però si verrebbe a creare è di natura ecclesiologica: la Chiesa è il corpo di Cristo e la presenza di tante piccole comunità organizzativamente autonome e completamente gestite dai fedeli senza una struttura organizzativa superiore alimenterebbe le divisioni fra di esse e il rischio di “accomodare” la Verità (Dio fatto uomo, morto per la nostra salvezza e risorto) in favore di esigenze personali o secondo la moda del periodo.
Già papa Francesco nella sua ultima riforma della Curia romana ha dato un segnale importante (e non è il primo): non solo i cardinali devono aiutarlo nel governo della Chiesa universale. Che non sia però male interpretato: apertura ai laici non vuol dire sovvertimento della dottrina o totale sminuimento del sacerdozio ministeriale (che resta un sacramento), ma un’opportunità per comprendere il senso di responsabilità e di comunità che ogni cristiano ha nella propria comunità. Basterebbe iniziare a venire alla messa per il Signore e non per il prete!