Papa Francesco su la notte incerta del senso e delle cose della vita.

di Carlo Parenti · Attraverso un periodo di stanchezza e delusione, in un sottofondo che a volte percepisco come letargico. Penso di non essere il solo specialmente dopo due anni di una pandemia che ci ha costretto ad isolamenti forzati, a paure del contatto con le persone anche più vicine e conseguentemente ad una mancanza di relazioni negando con ciò l’essenza stessa della persona che tale non è se non nella relazione con l’altro. Senza contare per chi si è ammalato di Covid ed è guarito i periodi -anche lunghi- di sofferenza fisica. Da febbraio, inoltre, si è aggiunta la guerra in Ucraina, che ci fa sentire impotenti e schiacciati da violenze che a livello personale non possiamo certamente sconfiggere. Ne subiamo in Italia però al momento solo pesanti conseguenze economiche, ma per fortuna non quelle della morte, delle ferite, delle distruzioni dei beni e dell’ambiente, che purtroppo perseguitano coloro che vivono nel teatro delle ostilità. Posso magari mandare aiuti -materiali o economici- ma la malinconia e il tedio permangono. Senza contare che i cattolici che sono contro le armi e a favore del dialogo per raggiungere la pace sono spesso criticati, considerati irrealistici e quindi poco intelligenti o addirittura derisi.

Da cattolico considero quanto sopra come una forma di accidia. Questa per il Treccani è descritta come Inerzia, indifferenza e disinteresse verso ogni forma di azione e iniziativa. E alla voce del vocabolario on line si cita il noto filosofo e psicanalista Umberto Galimberti che ne parla come la condizione che caratterizza molti giovani del nostro tempo, afflitti da assenza di interessi, monotonia delle impressioni, sensazioni di immobilità, vuoto interiore, rallentamento del corso del tempo. 

Noi cattolici dovremmo sapere bene che, nella morale cattolica, l’accidia si definisce come negligenza nell’operare il bene e nell’esercitare le virtù e che nella tradizione teologica, è uno dei sette peccati, o vizî, capitali.

Di fronte a una realtà che, in certi momenti, ci sembra ospitare tutti i contrari, riservando loro comunque lo stesso destino, che è quello di finire nel nulla, la via dell’indifferenza può apparire anche a noi l’unico rimedio ad una dolorosa disillusione. Sorgono in noi domande come queste: I nostri sforzi hanno forse cambiato il mondo? Qualcuno è forse capace di far valere la differenza del giusto e dell’ingiusto? Sembra che tutto questo è inutile: perché fare tanti sforzi?

È una specie di intuizione negativa che può presentarsi in ogni stagione della vita, ma non c’è dubbio che la vecchiaia rende quasi inevitabile questo appuntamento col disincanto. Il disincanto, nella vecchiaia, viene. E dunque la resistenza della vecchiaia agli effetti demoralizzanti di questo disincanto è decisiva: se gli anziani, che hanno ormai visto di tutto, conservano intatta la loro passione per la giustizia, allora c’è speranza per l’amore, e anche per la fede. E per il mondo contemporaneo è diventato cruciale il passaggio attraverso questa crisi, crisi salutare, perché? Perché una cultura che presume di misurare tutto e manipolare tutto finisce per produrre anche una demoralizzazione collettiva del senso, una demoralizzazione dell’amore, una demoralizzazione anche del bene.

Questa demoralizzazione ci toglie la voglia di fare. Una presunta “verità”, che si limita a registrare il mondo, registra anche la sua indifferenza agli opposti e li consegna, senza redenzione, al flusso del tempo e al destino del niente. In questa sua forma – ammantata di scientificità, ma anche molto insensibile e molto amorale – la moderna ricerca della verità è stata tentata di congedarsi totalmente dalla passione per la giustizia. Non crede più al suo destino, alla sua promessa, al suo riscatto.

Per la nostra cultura moderna, che alla conoscenza esatta delle cose vorrebbe consegnare praticamente tutto, l’apparizione di questa nuova ragione cinica – che somma conoscenza e irresponsabilità – è un contraccolpo durissimo. Infatti, la conoscenza che ci esonera dalla moralità sembra dapprima una fonte di libertà, di energia, ma ben presto si trasforma in una paralisi dell’anima.

Qoelet, con la sua ironia, smaschera già questa tentazione fatale di una onnipotenza del sapere – un “delirio di onniscienza” – che genera un’impotenza della volontà. I monaci della più antica tradizione cristiana avevano identificato con precisione questa malattia dell’anima, che improvvisamente scopre la vanità della conoscenza senza fede e senza morale, l’illusione della verità senza giustizia. La chiamavano “accidia”. E questa è una delle tentazioni di tutti, anche dei vecchi, ma è di tutti. Non è semplicemente la pigrizia: no, è di più. Non è semplicemente la depressione: no. Piuttosto, l’accidia è la resa alla conoscenza del mondo senza più passione per la giustizia e per l’azione conseguente.

Il vuoto di senso e di forze aperto da questo sapere, che respinge ogni responsabilità etica e ogni affetto per il bene reale, non è innocuo. Non toglie soltanto le forze alla volontà del bene: per contraccolpo, apre la porta all’aggressività delle forze del male. Sono le forze di una ragione impazzita, resa cinica da un eccesso di ideologia. Di fatto, con tutto il nostro progresso, con tutto il nostro benessere, siamo davvero diventati “società della stanchezza”. Pensate un po’ a questo: siamo la società della stanchezza! Dovevamo produrre benessere diffuso e tolleriamo un mercato scientificamente selettivo della salute. Dovevamo porre un limite invalicabile alla pace, e vediamo susseguirsi guerre sempre più spietate verso persone inermi. La scienza progredisce, naturalmente, ed è un bene. Ma la sapienza della vita è tutta un’altra cosa, e sembra in stallo.