L’umiltà come categoria teologica
di Gianni Cioli • «Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo […]. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedigli il posto!’. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: ‘Amico, vieni più avanti!’. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”» (Lc 14,1.7-11).
Nella riflessione cristiana l’umiltà ha guadagnato una collocazione eminente che non conosceva nel catalogo delle virtù antiche. Credo che la ragione profonda di questa preminenza vada individuata nel fatto che l’umiltà per i cristiani non è una semplice virtù morale, ma piuttosto la prerogativa di Dio che in Gesù Cristo si è rivelato in pienezza e in maniera definitiva.
Il Dio totalmente altro – colui che nessuno «ha mai visto» (Gv 1,18) – si reso visibile (1Gv 1,1-4) e raffigurabile (cf. Concilio Niceno II [787], Denzinger 600-603), a motivo dell’incarnazione del «Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre» (Gv 1,18). Sulla croce Egli si è fatto conoscere appieno manifestando la profondità del suo amore (1Gv 4,9) e la larghezza della sua misericordia. Se questo è vero, allora la rivelazione in Cristo non può che essere definita a partire dalla sua struttura chenotica, quella struttura insuperabilmente delineata dall’inno prepaolino della lettera ai Filippesi, una delle più antiche composizioni liturgiche cristiane:
«egli [Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, / non ritenne un privilegio / l’essere come Dio, / ma svuotò se stesso / assumendo una condizione di servo, / diventando simile agli uomini. / Dall’aspetto riconosciuto come uomo, / umiliò se stesso / facendosi obbediente fino alla morte / e a una morte di croce. / Per questo Dio lo esaltò / e gli donò il nome / che è al di sopra di ogni nome, / perché nel nome di Gesù / ogni ginocchio si pieghi / nei cieli, sulla terra e sotto terra, / e ogni lingua proclami: / “Gesù Cristo è Signore!”, / a gloria di Dio Padre» (Fil 2,6-11).
È nell’umiltà del Figlio, nella sua umiliazione che ha avuto inizio nell’incarnazione ed ha trovato compimento sulla croce, che Dio ci ha salvato facendosi conoscere, e si è fatto conoscere salvandoci. È nell’umiltà del Figlio che ci è stato annunciato appieno il nome di Dio: «Dio è amore» (1Gv 4,8).
L’umiltà può dunque essere pienamente riconosciuta come categoria teologica in quanto categoria cristologica e trinitaria.
Alla luce di queste considerazioni possiamo forse rileggere la parabola di Lc 14,7-11, da cui siamo partiti, non semplicemente come un consiglio prudenziale o come un’esortazione morale a essere umili, bensì come un’allusione in filigrana della stessa vicenda Cristo: «chi si umilia sarà esaltato» … Egli si è umiliato mettendosi all’ultimo posto con la morte di croce … ma Dio l’ha esaltato con la risurrezione e gli ha dato «il nome che è al di sopra di ogni nome».
Come sappiamo la rivelazione in Cristo non è soltanto rivelazione del vero volto di Dio ma è anche rivelazione del vero volto dell’uomo (cf. Gaudium et spes 22). Ne deriva che, se l’umiltà è stata la strada percorsa da Dio per comunicarsi all’uomo, sarà anche necessariamente la strada che l’uomo dovrà percorrere per ritrovarsi in Dio: per ritrovare la vera immagine e somiglianza di Dio accogliendo il dono di grazia della figliolanza divina.
L’autentica umiltà dell’uomo è dunque la risposta accogliente all’umiltà di Dio che si è donato e non cessa di donarsi occupando l’ultimo posto per esaltare gli ultimi. Di questa risposta l’esempio più alto e paradigmatico e senza dubbio quello della Vergine Maria (cf. Lc 1,38.46-55), a lei possiamo e dobbiamo fare riferimento per imparare a lasciarsi innalzare (Lc 1,52) dal Signore.