Ancora sul diritto alla libertà religiosa
di Andrea Drigani • Sono passati più di cinquant’anni dalla pubblicazione della Dichiarazione conciliare «Dignitatis humanae» riguardante, come si legge nel titolo del primo paragrafo, il diritto della persona e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia religiosa. Si tratta di un argomento che per vari motivi, anche drammatici, continua ad essere oggetto di questioni teoriche e pratiche e che ha visto ulteriori approfondimenti nel magistero del Beato Paolo VI e soprattutto in quello di San Giovanni Paolo II. Sulla «Dignitatis humanae» tuttora permangono degli strani fraintendimenti, che non rendono bene intellegibile, secondo la concezione cattolica, il diritto alla libertà religiosa, e ne impediscono il suo sviluppo e la sua autentica applicazione. Come già osservava il cardinale Pietro Pavan (1903-1994) che aveva collaborato, in quanto perito conciliare, alla stesura del documento, si tratta di una libertà di natura giuridica, non morale, cioè si proclama il diritto delle persone di non essere obbligate ad aderire ad una religione, come pure si proclama il diritto, esteso alle comunità religiose, di non essere impediti nell’esercizio della propria fede. Per il giurista Pietro Agostino D’Avack (1905-1982) la «Dignitatis humanae» costituiva, tra l’altro, una doverosa reazione della Chiesa cattolica allo Stato totalitario (nazista o comunista) che assorbiva o asserviva in modo coatto tutti i valori spirituali in una concezione materialistica di conquista egemonica dell’umanità. Quando, nella Dichiarazione, si precisa che la libertà religiosa è da intendersi in senso giuridico e non morale, si esclude ogni forma di indifferentismo e di relativismo, come ribadito nei documenti del Vaticano II. Nella Costituzione «Gaudium et spes» al n.17, infatti, si dice: «Ma l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà, quella libertà a cui i nostri contemporanei tanto tengono e che ardentemente cercano, e a ragione. Spesso però la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso anche il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo segno altissimo dell’immagine divina…La libertà dell’uomo, che è stata ferita dal peccato, può rendere pienamente efficace questa ordinazione verso Dio solo con l’aiuto della grazia divina». La circostanza che ad ogni persona sia garantita, da un punto di vista legale, la libertà cioè l’assenza di coercizione in ordine alla scelta religiosa, non significa che qualsivoglia scelta religiosa sia moralmente possibile. La «Dignitatis humanae» al paragrafo secondo afferma che: «A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze». Se è possibile fare un paragone si può considerare come il diritto di voto, personale, uguale, libero e segreto, è giustamente e rigorosamente tutelato, da un punto di vista giuridico, ma ciò non porta alla conseguenza che qualunque voto, qualsiasi opzione politica sia, da un punto di vista morale, lecita. Un tema che si è reso quanto mai attuale, a motivo di nefandi attentati terroristici commessi da chi dice di richiamarsi ad una fede religiosa, è quello dei limiti al diritto alla libertà religiosa. E’ anzitutto da rammentare il principio generale esplicitato da San Giovanni XXIII nell’Enciclica «Pacem in terris» al n.26: «E’ compito fondamentale dei pubblici poteri disciplinare e comporre armonicamente i rapporti tra gli esseri umani in maniera che l’esercizio dei diritti degli uni non costituisca un ostacolo od una minaccia per l’esercizio degli stessi diritti degli altri, e si accompagni all’adempimento dei rispettivi doveri». Venendo in particolare ai limiti del diritto alla libertà religiosa, indicati nel n.7 della «Dignitatis humanae», il cardinale Pavan, commentando questo paragrafo, annotava che i Padri conciliari avevano adottato come criterio giuridico per limitare l’esercizio della libertà religiosa quello dell’«ordine pubblico», che viene definito come un convivere ispirato all’esigenza dell’ordine morale obbiettivo, che deve contenere gli elementi essenziali del bene comune come l’efficace tutela dei diritti, la difesa della pubblica moralità, la salvaguardia della pace pubblica, la quale pace non è da intendersi solo come assenza di perturbamenti ma un’ordinata convivenza nella giustizia. Questa prospettiva era stata, in qualche modo, preannunciata da Pio XII nel Discorso ai giuristi cattolici del 6 dicembre 1953 laddove sosteneva che ai cittadini di ogni Stato fosse permesso l’esercizio delle proprie credenze e pratiche religiose, purchè non contravvenissero alle leggi penali dello Stato in cui soggiornavano. Per evitare gli abusi della libertà religiosa, occorre richiamare l’attenzione di tutti sulla vera libertà della religione, la quale – diceva il cardinale Pavan – va professata ad elevazione del proprio spirito e non a violazione dei diritti altrui o ai danni della società.