Raccontare la realtà e l’economia

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di Giacomo Funghi – L’economia all’origine era nata come una branca della filosofia morale e indicava come organizzare il mercato e regolarlo. I benedettini e i francescani furono le prime scuole di pensiero economico; pensiero che guidava l’azione, come per esempio con i monti di pietà. Economia e morale erano strettamente legate perché la ricchezza prodotta con il lavoro potesse essere un aiuto e motivo di emancipazione per molti.

Tra il XVII-XVIII secolo, studiosi come Ricardo, Cournot, Warlas crearono i primi modelli economici su piano cartesiano divenendo noti come i “classici” insieme anche a Smith e altri. In quel periodo nacque lo studio della microeconomia, ossia dell’analisi del comportamento dei singoli agenti del mercato e di come i prezzi dei beni vengono stabiliti. Quest’analisi era ed è puramente matematica per cui si prendeva come assioma la perfetta razionalità degli agenti: secondo i classici ogni agente economico, consumatore o produttore, è capace di calcolare precisamente al centesimo “l’utilità” delle sue scelte, utilità come beneficio del possesso della cosa. Da qui l’economia capitalista delle prime due rivoluzioni industriali, in cui tutto era ridotto a un calcolo, una questione di affari e il lavoratore era solo un fattore di produzione, come un macchinario, che fa parte dell’equazione del profitto che l’industriale voleva massimizzare. Sono gli anni di Dickens e Hard Times e la morale dell’economia fu sostituita da equazioni da massimizzare con derivate. Da lì a poco saranno anche gli anni del marxismo e degli scioperi dei lavoratori.

Negli anni trenta del novecento nelle università inglesi la materia di political economy cambiò il nome in economics perché quella desinenza cs ricordava materie come phisics o matemathics le cui leggi non dipendono dalla morale. Il pensiero economico dominante voleva togliere dall’economia i suoi elementi umanistici per trasformarla in una scienza pura a servizio del mercato. Non era più importante la condizione umana perché il mercato era in grado di risolvere tutto, l’incrocio tra domanda e offerta era un equilibrio ritenuto giusto ed efficiente. Se un’impresa fallisce, se bisogna licenziare del personale è solo perché è stato determinato dalla mano invisibile del mercato secondo cui ognuno portando avanti il proprio interesse porta il beneficio di tutti, non importa come.

John Maynard Keynes

Dopodiché nel 1936 Keynes pubblicò la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta destinata per sempre a cambiare l’economia con la nascita della macroeconomia. Il pensiero keynesiano portò molte novità, dalla considerazione della spesa pubblica alla rigidità dei prezzi, e da questo si svilupparono diverse scuole di pensiero: prima i keynesiani, i diretti allievi di Keynes, poi nel secondo dopoguerra i neokeynesiani a cui si contrapposero i post-keynesiani e infine, in qualche modo, i monetaristi. Le idee dei classici pure non rimasero sepolte e continuarono con i neoclassici. Molte scuole di pensiero diverse le une dalle altre che propongono un’idea diversa per rappresentare e interpretare la realtà. Quello che resta è spesso una visione matematica dell’economia quando invece le sue leggi non sono leggi deterministiche ma che dipendono dal comportamento delle persone.

Tanti anni di capitalismo e politiche neoliberiste hanno risvegliato il senso morale dell’economia che non può più da molto tempo essere ignorato. Negli studi economici non possiamo basare più le scelte dei consumatori basandoci su un’equazione, alquanto banale, che definisce “l’utilità” di un bene. Non è l’utilità che l’uomo desidera ma la felicità che non si risolve nel potere del possesso sulle cose, ma dai rapporti interpersonali.

Molte imprese in questi anni hanno saputo cogliere l’aspetto puramente umano dell’economia disegnando i loro modelli di business in modo tale da instaurare una relazione con le comunità locali per rendere il lavoro uno strumento che sviluppa e dà dignità all’uomo invece che degradarlo. Sono le imprese sociali del terzo settore, in Italia ne abbiamo tante e ogni giorno imprenditori e imprenditrici dimostrano quello che molti economisti hanno ignorato: che l’economia è il prendersi cura degli altri, anche di chi non rientra in certi canoni di “produttività”, è il saper scambiare i beni in maniera equa, che la vita non è tutta un calcolo, che quando il lavoro crea benessere verso l’esterno si costruiscono comunità migliori e solidali.

L’economia sta cambiando, anche se ci sembra che il mondo della grande finanza sia lontano da questi ragionamenti e che in alcune parti del mondo si continua con attività che danneggiano la terra, il mondo sta cambiando e continuerà a cambiare e gli economisti (con la speranza di poter un giorno dire “noi” economisti) dovranno essere capaci di considerare questa nuova realtà nei loro studi, studi che influenzeranno le scelte economiche e le scelte di politica economica che influenzeranno la vita di ognuno di noi. «We are basically story-tellers» scrisse in breve articolo intitolato “What economists do?” Robert Lucas, uno dei più importanti economisti dello scorso secolo e premio Nobel scomparso il 15 maggio. Chissà se sapremo raccontare la realtà, leggere i segni dei tempi, accorgerci dei problemi nascosti e saper proporre delle soluzioni. L’economia moderna ha bisogno di economisti e di giuristi e di sociologi e di filosofi e di altre figure che insieme si riuniscano per comprendere l’agire dell’uomo e raccontarlo, per ricercare e condividere quella sapienza che possa ispirare azioni per costruire società più giuste e pacifiche. Chissà se nel fare queste cose sapremo anche essere pronti a tendere l’orecchio a Cristo, perché quello di cui abbiamo maggiormente bisogno sono testimoni di una vita diversa, di uno studio diverso, di un’economia non per se stessa, non per il denaro, ma a servizio dell’uomo, soprattutto se debole perché lì troveremo Cristo e la fatica del nostro agire avrà un senso.

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