di Elia Carrai • Davanti alla pretesa moderna di far coincidere il conoscibile con il misurabile, relegando le questioni inerenti il significato dell’esistenza in una sfera “noumenica” sospesa oltre la ragione, possiamo riscoprire oggi il valore decisivo del domandare. In un mondo che spesso pretende offrire risposte ancor prima che sorgano le domande, in cui il chiedere è dai più interpretato come un segno di debolezza, confessione inaudita di una mancanza, domandare è divenuto estremamente impopolare; non solo, si crede di poter sorvolare proprio su quelle domande che per secoli hanno caratterizzato la ricerca e la tensione conoscitiva dell’uomo. Convinto, ormai, che tutto ciò che si può conoscere è ultimamente misurabile, e demandato alla scienza e alla tecnica tale compito, all’uomo contemporaneo non è rimasto che vivere, senza porsi troppe domande, accontentandosi di essere talvolta aggiornato dalle scienze su una qualche novità, purché -ovviamente- di un certo interesse. Così, ogni volta che qualcosa sembra scalfire questa scorza d’indifferenza (l’esistenza rimane pur sempre carica delle sue contraddizioni), prontamente l’apparato epistemologico contemporaneo si mobilita, mostrando come certe domande non possono trovare una risposta univoca, condivisa, al pari delle conclusioni della scienza e che, per questo, è meglio lasciar perdere cosa sia il male, la liberà, il dolore, il vero, cosa significhi profondamente amare o intensamente vivere. Una simile declinazione “ristretta” della ragione comporta, di fatto, una comprensione altrettanto ristretta del reale, in cui certe domande finiscono per essere “fuori luogo”: inadeguate a quei paradigmi propri di una ragione misuratrice. Si genera così nella persona una sorta di ultimo impaccio con se stessa, con gli altri e nei confronti del reale. L’uomo contemporaneo, ereditata questa versione ridotta della ragione, deve rassegnarsi a rinunciare a qualcosa di sé per potersi annoverare tra gli uomini razionali: una certa idea di ragione si impone così sulla realtà uomo, senza che questi si chieda come possano certe domande risultare “fuori luogo” dal momento che è proprio nell’uomo che sorgono. Dall’altro lato, a coloro che “romanticamente” rifiutano in toto il moderno paradigma di ragione, sembra rimanere, come ultimo rifugio, l’inquietante mondo dell’irrazionale: una realtà oggi sempre più stratificata che si ramifica in dietrologie inverosimili, credenze surreali e in ultima analisi in uno scetticismo radicale che si declina in una qualche forma di complottismo; è in questo ambito, alieno ad un serio impegno di ragione, che la moderna ratio vorrebbe infine costringere ed annoverare la stessa esperienza di fede. L’esilio di quanto trascende il fenomenico oltre una cortina assolutamente inaccessibile alla ragione (Kant), avrebbe dovuto portare in breve tempo alla condivisa certezza intorno alla conoscenza dei fenomeni e, quindi, della realtà tout court. Tuttavia, proprio per questa esclusione preventiva del tutt’altro, si è determinato un curioso cortocircuito. Se da un lato la forza interrogante della ragione in ordine ai significati ultimi dell’esistenza non può essere semplicemente soppiantata, dall’altro il progressivo restringimento del reale ai soli dati misurabili e la conseguente negazione di ogni alterità, hanno fatto sì che l’uomo riversasse la propria urgenza di significato entro l’ambito di questa “realtà ristretta”. Una realtà, tuttavia, incapace a fornirsi da se stessa, con le sue proprie contraddizioni e limiti, un orizzonte esauriente e completo di significato: l’epoca moderna si è così caricata di un onere che non avrebbe potuto in alcun modo sostenere. Questa ricerca di un orizzonte totale e ideale entro cui concepire l’intera esistenza, tutta svolta in senso immanente, non traducendosi mai in un’apertura radicale al veramente altro da sé, è destinata a sfociare in grotteschi tentativi di fissare il valore ultimo del vivere in qualcosa di penultimo, tristemente destinato a passare, in qualche modo derivato da se stessi, costruito ed affermato con le proprie forze: i totalitarismi del secolo passato ci hanno mostrato su vasta scala cosa può significare avere la pretesa di fissare arbitrariamente, con la forza, l’orizzonte di significato non solo dei singoli ma di interi popoli e con ciò della storia stessa. Paradossalmente, cioè che rivela l’ultima inefficacia di simili tentativi, sono proprio quelle domande che, non paghe, continuano a incrinare la sicurezza di una ragione positivisticamente intesa.
È per questo motivo che oggi più che mai occorre tornare a prender sul serio le domande che intimamente muovono l’uomo, lasciando che queste spezzino il paradigma di una ragione ridotta a misuratrice universale, in favore di una ragione che è -appunto- essa stessa domanda, energia permanente di ricerca: tensione originale a quell’orizzonte entro cui la vita può finalmente divenire “respirabile”. Così Hesse nel suo “Il lupo della steppa”: «Io penso così: noi uomini, noi che abbiamo maggiori pretese, che abbiamo le aspirazioni e una dimensione di troppo non potremmo neanche vivere se, oltre all’aria di questo mondo, non ci fosse anche un’altra atmosfera respirabile, se oltre al tempo non esistesse anche l’eternità, il regno dell’autenticità». Ogni serio atteggiamento umano include il tentativo di stabilire un nesso con questa profondità del reale, con quella alterità che ne costituisce al contempo la radice e l’orizzonte. Intercettare le domande dell’uomo contemporaneo e sostenerlo in questa posizione interrogante nei confronti del reale non è semplicemente un opporsi all’indifferentismo, si tratta piuttosto di sostenere la ragione in una vera e propria riconquista della realtà totale. Si tratta cioè di riguadagnare attraverso le domande, la certezza che deve esserci un’altra aria respirabile, non aprioristicamente preclusa. L’allargamento della ragione coincide così con una prospettiva spalancata al reale, libera di ammettere il mistero profondo al fondo dell’umana esistenza e della realtà stessa; un mistero nei confronti del quale l’uomo non può essere semplicemente indifferente. Si potrebbe obiettare che una simile posizione non esaurisce il bisogno dell’uomo, lasciandolo sostanzialmente nella medesima incertezza di prima e, tuttavia, occorre sottolineare con forza come solo così l’uomo può cominciare a riappropriarsi di una realtà “piena”, dalla quale può attendere qualcosa d’altro (e di piú) rispetto alle sempre nuove proiezioni di se stesso. La serietà con le proprie domande riconsegna l’uomo anche ad un’apertura religiosa elementare, senza che questo ne risolva il dramma esistenziale e, tuttavia, consentendogli di non obliterare la profondità della propria realtà personale. La Chiesa è oggi chiamata a prendersi cura delle domande dell’uomo, nella consapevolezza che solo in una lealtà verso quest’ultime questi potrà riconoscere l’autentica portata della fede in Cristo per la sua stessa vita. Si tratta cioè di stimare le domande profonde che animano i nostri contemporanei, lasciando che queste rivelino l’insufficienza dei paradigmi di ragione ristretti, dei preconcetti di una mentalità che crede risolta la questione intorno al “senso ultimo”; ed è per questo che la Chiesa non solo è chiamata a sostenere tali domande prendendole sul serio, ma è chiamata essa stessa a rivolgere all’uomo proprio quelle domande che possono liberarlo da tutte le mezze risposte e soluzioni a buon mercato oggi offerte come “anestetico” contro ogni messa in discussione. Non tanto “attaccare” il paradigma di ragione “ristretto”, quanto sostenere ed alimentare quelle domande per le quali un simile paradigma, come neve al sole, si rivela inadeguato. Come Gesù con la donna samaritana, al pozzo, ci scopriamo chiamati ad un dialogo libero con chiunque (Gesù non si ferma ai pregiudizi sui samaritani) in cui il chiedere, la domanda, ha innanzitutto lo scopo di suscitare e destare l’io dell’altro. Un domandare che è tutt’uno con una passione sincera al destino altrui, perché l’altro scopra cosa veramente risponde; comprendiamo, così, quanto Agostino colga nel segno nel commentare la domanda di Gesù alla samaritana: «colui che chiedeva aveva sete della fede di quella donna». La rivelazione a Israele quale storia di salvezza, l’Incarnazione del Figlio, ingresso tangibile del divino sulla scena del mondo, rivelano quale sia il “metodo di Dio”: entrare in rapporto all’umano dal di dentro della storia, mediante una storia con ogni uomo, così da intercettarne tutta la concretezza di bisogno, di domanda. La grande sfida è così quella di prender sul serio quelle domande che ogni volta ci chiedono di allargare la ragione e di scoprire quanto sia vero che «Ci sono più cose in cielo e in terra […] di quante ne sogni la tua filosofia» (Shakespeare). La Chiesa, quanto più è appassionata a queste domande, quanto più invita l’uomo a viverle (“credenti” in primis), tanto più porterà ciascuno a verificare la pertinenza dell’annuncio cristiano ai bisogni concreti della vita: in che modo Cristo voglia realmente compiere le attese del cuore di ogni uomo. Il richiamo di Benedetto XVI a lasciarsi allargare la ragione, e il continuo invito di Papa Francesco ad entrare liberamente e seriamente in dialogo con le profonde domande dei nostri contemporanei, sono due dimensioni di quell’unica intelligenza della fede. Vengono così in mente le parole di Rilke: « Non cercare ora risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere. E di questo si tratta: di vivere tutto. Vivi ora le domande. Forse ti avvicinerai così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere un giorno lontano, la risposta».