Sacramento vivente del primo passo di Dio
di Alessandro Clemenzia • La “sacramentalità”, il più delle volte, è considerata un termine “tecnico” per esprimere la natura di una realtà complessa, che ha a che fare sia con ciò che è umano, sia con ciò che divino: per questa ragione il Sacramento per eccellenza è proprio Cristo, vero Dio e vero uomo. L’espressione “sacramento” o “sacramenti”, invece, trova una recezione decisamente più ampia, coinvolgendo anche i così chiamati “non addetti ai lavori”.
Papa Francesco, nel suo ultimo viaggio apostolico, rivolgendosi all’Episcopato colombiano, ha presentato il motto della sua visita: «Fare il primo passo». Non si tratta di una semplice esortazione comportamentale, ma del diventare sempre più consapevoli della mossa di Dio nella storia dell’uomo, da cui scaturisce un nuovo modo di relazionarsi verso se stessi e verso gli altri. Quest’immagine esprime Dio come colui che compie per primo il passo per avvicinarsi al suo prossimo, anticipando così ogni azione umana: «Egli ci anticipa sempre». Il compiere un passo verso l’altro, in secondo luogo, è un vero e proprio atto di uscita-da-sé: «Tutta la Sacra Scrittura parla di Dio come esiliato da Se stesso per amore». Il Papa ripercorre i vari momenti, nella storia della salvezza, in cui emerge questo esilio di Dio: «Quando vi erano solo tenebre, caos e, uscendo da Sé, Egli fece in modo che tutto venisse ad essere», quando «passeggiava nel giardino delle origini», o ancora «quando, pellegrino, Egli sostò nella tenda di Abramo», oppure «quando emigrò con la sua gloria verso il suo popolo esiliato nella schiavitù». E infine ricorda il «passo irreversibile» di Dio: l’incarnazione del Verbo.
Tutte queste uscite di Dio chiedono a ogni uomo disponibile all’ascolto di quella “Parola che carne si è fatta” di corrisponderGli, inserendosi all’interno della medesima dinamica di uscita: «Coloro che lo riconoscono e lo accolgono ricevono in eredità il dono di essere introdotti nella libertà di poter compiere sempre in Lui questo primo passo». È un passo che, oltre ad essere primo, è anche decisivo, non soltanto per il “dove” si è diretti, ma soprattutto per quel “a Chi” viene fatto.
Coloro che compiono questo passo, spiega Francesco, «non hanno paura di perdersi se escono da se stessi, perché possiedono la garanzia dell’amore che promana dal primo passo di Dio, una bussola che impedisce loro di perdersi». Si tratta dunque, per ogni uomo, di compiere un primo passo “nel” già compiuto primo passo di Dio: è come se il passo umano, pur essendo il secondo rispetto a quello di Dio, si inserisse nella “primarietà” divina, divenendo anch’esso primo verso i fratelli e le sorelle.
Dopo aver sottolineato quest’interessante dinamica relazionale tra Dio e uomo, il Papa si rivolge direttamente all’episcopato colombiano, chiedendo loro di compiere il gesto del passo con una consapevolezza ancora più grande: «Custodite dunque, con santo timore e con commozione, quel primo passo di Dio verso di voi e, per mezzo del vostro ministero, verso la gente che vi è stata affidata, nella consapevolezza di essere voi stessi sacramento vivente di quella libertà divina che non ha paura di uscire da sé stessa per amore, che non teme di impoverirsi mentre si dona, che non ha necessità di altra forza che l’amore».
Consapevoli di quel passo che Dio ha compiuto verso di loro e verso ogni persona loro affidata, i vescovi devono diventare «sacramento vivente di quella libertà che non ha paura di uscire da se stessa per amore». Non si parla qui di sacramentalità della Chiesa o dei sette sacramenti, ma di un ministro che dev’essere in se stesso, con la sua vita, sacramento di quell’esperienza d’amore da cui è stato prima avvolto, poi ecclesialmente inviato. Cosa si intende qui per “sacramento”, alludendo al singolo ministro episcopale? Il Concilio Vaticano II, riconoscendo che Cristo è il Sacramento primordiale, parla della Chiesa «come sacramento», spiegando il significato di questa parola: «e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Emerge in questa definizione la natura relazionale del sacramento, poiché esso è segno (il segno rimanda a qualcosa o a qualcuno altro-da-sé) e strumento (vale a dire: non fine a se stesso). Il vescovo è tale, dunque, nel «rendere tangibile l’identità di sacramento del primo passo di Dio», e questo, spiega ancora Francesco, esige «un continuo esodo interiore».
Papa Francesco, inoltre, offre all’episcopato colombiano un’ultima indicazione di “metodo” per vivere come sacramento vivente: «Vi raccomando di vigilare non solo individualmente ma anche collegialmente, docili allo Spirito Santo, su questo permanente punto di partenza». Questo “collegialmente” non è un di più, ma è essenziale per la natura dell’episcopato: è un richiamo a vivere questa dinamica esodale all’interno di uno spazio comunionale, quale appunto il collegio episcopale, di cui ogni vescovo, dal momento dell’ordinazione, entra a far parte come condizione di possibilità del proprio particolare esercizio ministeriale.