L’Unione Europea a sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma del 1957

Quando ancora l’Europa stava soffrendo per le conseguenze del secondo conflitto mondiale, iniziava ad aprirsi uno spiraglio che tornava a dare fiducia incoraggiandola a fare un cammino condiviso. Il 18 aprile 1951 a Parigi i governi di Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo istituirono la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio con l’intento di realizzare un progetto federalista, sovranazionale. Figura di rilievo fu il ministro degli Esteri francese Robert Schuman che vedeva nella condivisione delle risorse minerarie e industriali della Francia e della Germania la possibilità di evitare il ripetersi, almeno in Europa, delle stesse cause che avevano portato al secondo conflitto mondiale. Proprio sessant’anni fa, il 25 marzo 1957, a Roma si ritrovarono in Campidoglio i rappresentanti degli stessi governi per istituire la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom). I due trattati, chiamati Trattati di Roma, furono poi ratificati dai rispettivi parlamenti.

Con il trattato che istituì la CEE l’Europa dette vita a un organismo con ruolo prevalentemente economico per favorire la crescita dei paesi che vi aderirono. In particolare furono aboliti i dazi doganali tra gli Stati membri dando vita a un mercato unico. Il trattato che istituì l’Euratom si prefiggeva di coordinare i programmi di ricerca sull’energia nucleare e soprattutto di utilizzarla a scopi pacifici.

Da oltre sessanta anni si parla di Unione Europea, ma non sempre è stato fatto lo sforzo di coltivarla cercando di favorire nelle relazioni tra gli stati un rapporto dinamico finalizzato a riconoscere e approfondire i valori e i principi che sono alla base del processo di unificazione europea. E’ innegabile che l’esperienza di questi decenni sia contrassegnata anche dallo sviluppo della Comunità Europea, per esempio per quanto riguarda le attività economiche, il livello di protezione sociale, la dignità umana. Su queste basi l’Europa ha potuto aiutare la propria crescita e consolidare la democrazia con la vittoria sulle dittature e l’adesione di nuovi popoli. Tuttavia, l’elemento più tangibile e fonte di speranza per il futuro è stato senz’altro il valore condiviso e irrinunciabile della pace.

Con uno sguardo positivo non possiamo sottovalutare che il Trattato di Maastricht aveva dato risultati anche apprezzabili, questa volta non di natura burocratica, favorendo l’avvicinamento tra i popoli con il concetto di cittadinanza europea senza venire meno quella nazionale. Grande successo hanno avuto i programmi di scambio tra studenti come l’Erasmus che ha coinvolto la comunità universitaria transnazionale riportandoci con la memoria ai tempi del cristianesimo medievale e del Rinascimento.

A questo dato di fatto si affianca però la preoccupazione di non riflettere abbastanza sulle ragioni e sui valori che hanno favorito in Europa l’affermarsi del processo di pace più lungo che sia mai stato conosciuto. Guardare alla pace non significa semplicemente prendere atto dell’assenza di guerra grazie all’Unione Europea. Questa sarebbe una visione meccanicistica come se la pace fosse un dato scontato. Si tratta invece di riconoscere e proclamare i valori di fondo che avvicinano popoli di culture certamente diverse, ma non tanto lontane tra loro. L’esperienza di questi anni porta ad affermare che il processo di integrazione europea non è un’operazione tecnocratica che possa favorire l’incontro di modelli sociali e culturali. Espressione di questa impostazione è stato il fallimento del progetto di Costituzione europea che nel 2005 non riuscì a superare il referendum aprendo la strada alla corrente cosìddetta euroscettica. Un altro punto di debolezza rispetto allo spirito dei padri fondatori è di aver privilegiato il metodo intergovernativo che guarda agli interessi nazionali, rispetto al metodo comunitario che mette al centro la solidarietà tra le persone e il perseguimento del bene comune allontanando le derive nazionaliste e populiste.