Una teologia “personale”
Tale separazione fra dimensione “teologica” e “pastorale” si fa sentire anche in un altro ambito della riflessione. Non di rado, infatti, la denominazione applicata al Vaticano II di essere un “Concilio pastorale” ha fatto nascere da diverse parti il dubbio che non si trattasse effettivamente di un evento teologico (e per questo è considerato di “serie B”). Nell’uno o nell’altro caso, l’elemento teologico e quello pastorale sembrano contrapporsi radicalmente.
Per venire fuori da tale modo di pensare, Papa Francesco offre delle coordinate con l’intento non di far cambiare idea su questioni specifiche, ma di far recuperare quella dimensione d’insieme, in assenza della quale tutto, e il suo contrario, può essere dogmatizzato a personale piacimento. Già Benedetto XVI, in diversi pronunciamenti, aveva evidenziato l’infondatezza di una contraddizione fra il “teologico” e il “pastorale”: ma anche in quel caso si è proseguito nel convincimento contrario.
La questione è decisiva: una teologia, sganciata dall’esperienza, «rischia di diventare ideologia». Senza cadere nell’astratto, il Pontefice parte da alcune domande concrete che ogni teologo dovrebbe porsi nel suo teologare: «A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti?».
Al di là del richiamo esplicito a non intendere la ricerca o l’insegnamento come un “travasamento concettuale” da un vaso più pieno ad uno meno, il prendere coscienza che il linguaggio e la riflessione assumono la forma a partire dall’interlocutore significa affermare che la teologia dovrebbe essere di per sé già un atto pastorale e di trasmissione pastorale, in quanto il teologo non solo comunica vivendo, ma comunica la propria vita.
Il grande rischio però, nell’interpretare il videomessaggio del Papa, è quello di rimanere su un piano astratto, non legato alla vita reale: come, ad esempio, se si finisse per parlare in generale del rapporto tra teologia e vita, o tra teologo e Popolo di Dio. Per comprendere la portata del discorso, bisognerebbe che ogni teologo o docente di teologia pensasse al contenuto della propria disciplina partendo dal volto concreto di chi ha davanti, non soltanto per cercare di offrire nel modo migliore la maggior quantità di nozioni, ma perché ciò che egli trasmette deve provenire dall’esperienza di chi lo riceve. L’insegnamento teologico è quasi la restituzione, in una forma accademicamente e scientificamente efficace, di una realtà esperienziale che trova negli interlocutori la sua provenienza originaria, altrimenti è solo autoreferenzialità.
Papa Francesco, nei suoi pronunciamenti, non chiede di “fare qualcosa” di diverso o in più, ma di avere uno sguardo diverso e nuovo verso la realtà in cui già si è. Molto spesso invece si fa una teologia dell’utilizzo e della citazione di frasi che maggiormente corrispondono alla propria sensibilità o all’opportunità della circostanza, senza farsi realmente provocare.