di Alessandro Clemenzia • In certi ambienti sembra essere fuori luogo attribuire al magistero di Papa Francesco l’aggettivo di “teologico”; molti invece sembrano essere d’accordo nel ritenere il suo pontificato “pastorale”, volendo sottolineare in tal modo più la semplicità dei suoi gesti, che la profondità intellettuale. Tale visione della realtà aleggia sia tra le così chiamate “persone comuni”, sia tra diversi accademici che si muovono spesso nel tentativo di offrire ai pronunciamenti del Papa una fondatezza teologica, non considerando che essa è già presente.
Tale separazione fra dimensione “teologica” e “pastorale” si fa sentire anche in un altro ambito della riflessione. Non di rado, infatti, la denominazione applicata al Vaticano II di essere un “Concilio pastorale” ha fatto nascere da diverse parti il dubbio che non si trattasse effettivamente di un evento teologico (e per questo è considerato di “serie B”). Nell’uno o nell’altro caso, l’elemento teologico e quello pastorale sembrano contrapporsi radicalmente.
Per venire fuori da tale modo di pensare, Papa Francesco offre delle coordinate con l’intento non di far cambiare idea su questioni specifiche, ma di far recuperare quella dimensione d’insieme, in assenza della quale tutto, e il suo contrario, può essere dogmatizzato a personale piacimento. Già Benedetto XVI, in diversi pronunciamenti, aveva evidenziato l’infondatezza di una contraddizione fra il “teologico” e il “pastorale”: ma anche in quel caso si è proseguito nel convincimento contrario.
Indiscutibilmente prezioso a tale proposito è il videomessaggio che Francesco ha inviato al Congresso Internazionale di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, lo scorso 4 settembre. Egli ha contestualizzato e “vincolato” la celebrazione dei cento anni della Facoltà Teologica all’anniversario della chiusura del Vaticano II. Per comprendere l’uno, è necessario far memoria dell’altro: il primo vuole «celebrare il processo di maturazione di una Chiesa particolare»; il secondo spiega la Chiesa nella sua universalità. Da qui si deduce un fondamentale principio ecclesiologico: «La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso». In poche battute e con semplicità, il Papa ha spiegato un tema di grande rilievo.
Non è tuttavia solo questa polarità tensionale tra universale e particolare ad essere messa in luce, ma anche quella fra Tradizione ecclesiale e realtà attuale; e in quest’ambito Francesco fa entrare in gioco il ruolo del teologo, per far dialogare tra loro dei poli apparentemente opposti.
Questa antinomia fra universale e particolare, fra Tradizione ecclesiale e realtà attuale, scivola, a sua volta, sul binomio: teologia e pastorale. Questa opposizione scaturisce da una falsa identificazione di «dottrinale con conservatore, retrogrado», e di pastorale con “adattamento”, “riduzione”, “accomodamento”. Così «si genera una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente». E questa comprensione sul piano ecclesiale ha delle ripercussioni anche su un livello esistenziale: «La vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita».
La questione è decisiva: una teologia, sganciata dall’esperienza, «rischia di diventare ideologia». Senza cadere nell’astratto, il Pontefice parte da alcune domande concrete che ogni teologo dovrebbe porsi nel suo teologare: «A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti?».
Al di là del richiamo esplicito a non intendere la ricerca o l’insegnamento come un “travasamento concettuale” da un vaso più pieno ad uno meno, il prendere coscienza che il linguaggio e la riflessione assumono la forma a partire dall’interlocutore significa affermare che la teologia dovrebbe essere di per sé già un atto pastorale e di trasmissione pastorale, in quanto il teologo non solo comunica vivendo, ma comunica la propria vita.
Il grande rischio però, nell’interpretare il videomessaggio del Papa, è quello di rimanere su un piano astratto, non legato alla vita reale: come, ad esempio, se si finisse per parlare in generale del rapporto tra teologia e vita, o tra teologo e Popolo di Dio. Per comprendere la portata del discorso, bisognerebbe che ogni teologo o docente di teologia pensasse al contenuto della propria disciplina partendo dal volto concreto di chi ha davanti, non soltanto per cercare di offrire nel modo migliore la maggior quantità di nozioni, ma perché ciò che egli trasmette deve provenire dall’esperienza di chi lo riceve. L’insegnamento teologico è quasi la restituzione, in una forma accademicamente e scientificamente efficace, di una realtà esperienziale che trova negli interlocutori la sua provenienza originaria, altrimenti è solo autoreferenzialità.
Papa Francesco, nei suoi pronunciamenti, non chiede di “fare qualcosa” di diverso o in più, ma di avere uno sguardo diverso e nuovo verso la realtà in cui già si è. Molto spesso invece si fa una teologia dell’utilizzo e della citazione di frasi che maggiormente corrispondono alla propria sensibilità o all’opportunità della circostanza, senza farsi realmente provocare.