di Dario Chiapetti • In L’uomo oltre l’uomo (EDB 2015) T. Tosolini affronta la questione delle contemporanee correnti di pensiero che passano sotto i nomi di Transumanesimo e Post-umano, cercando, attraverso una lettura critica alla luce del pensare cristiano, di metterne in rilievo i temi di fondo.
Risulta utile iniziare con una breve explicatio terminorum. Innanzitutto, le dizioni Transumanesimo e Post-umano si riferiscono a due movimenti di pensiero, così simili tra loro da poter essere intesi come sinonimi. L’Autore spiega che tale corrente, come l’ha descritta Max More, uno dei suoi massimi esponenti, “è sia una filosofia basata sulla ragione, che un movimento culturale che afferma la possibilità e il desiderio di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana mediante la scienza e la tecnologia”.
Tale pensiero si muove in un’ottica evoluzionistica: non più quella biologica darwiniana, ma quella intenzionale, che riguarda cioè l’intelligenza. La cosmologia che sottostà a tali teorie concepisce il cosmo come un tutto in continuo divenire verso forme sempre più evolute di vita; e l’antropologia che ne risulta presenta l’uomo come l’essere più complesso di tutte le forme di vita, proprio in virtù della sua intelligenza; in tale visione, la corporeità umana altro non è che un ostacolo per tale evoluzione.
In virtù di questi presupposti filosofici, e grazie al ricorso alla tecnologia (intesa positivamente qua talis e svincolata da ogni principio religioso-morale che ne limiti o, anche solo, indirizzi l’attività), i transumanisti postulano l’oltre-uomo come quell’essere super-intelligente, autonomo e immortale che può rendersi tale attraverso il trasferimento della sua materia psichica, opportunamente trasformata in dati informatici, su supporti artificiali. L’obbiettivo da perseguire non è la felicità, ma il prolungamento della vita biologica.
Già in passato erano sorte visioni simili, ma con notevoli differenze.
Si pensi – scrive Tosolini – all’Übermensch di Nietzsche. Tale figura rappresenta, sì, un modello antropologico di superamento, che mira a realizzare la sua autosufficienza e l’affermazione della propria volontà di potenza, tuttavia, essa rappresenta anche quell’uomo che, non solo accetta il proprio fato, ma, addirittura, si slancia ad amarlo: è talmente potente da trasformare il ciò che è stato in ciò che voleva che fosse.
In ambito teologico è stato soprattutto Teilhard de Chardin a sviluppare un’antropologia sulla base di una visione evoluzionistica del creato, la quale, a sua volta, si fonda sul processo di cristificazione del cosmo. Tale evoluzione, che ha visto il succedersi delle fasi della geosfera, della biosfera e della noosfera, tende al Punto Omega, il Cristo cosmico. Se prima d’allora l’oggetto dell’evoluzione era la materia, ora invece è l’intelligenza: è essa a guidare lo sviluppo umano, inteso come avvicinamento al Punto Omega. Tale visione ha diversi punti in contatto con quella transumanista; si osservi, tuttavia, che per essa la realtà corporale non è un semplice dispositivo, e la morte riveste un valore positivo di trasformazione della realtà umana nella linea della sua evoluzione.
La questione presentata in questo testo è complessa e di grande rilevanza, e attorno ad essa si tenta ora di fare le seguenti riflessioni.
A livello metodologico occorre domandarsi quale sia lo status quaestionis, l’obiettivo da perseguire, e se tale obiettivo realizzi l’identità dell’oggetto in esame. Nel nostro caso, il vero problema è: cosa si intende per uomo?
A livello epistemologico, occorre valutare se prendere in considerazione il contributo del pensiero cristiano, e se considerarlo nel suo tenore rivelativo, senza cadere in letture bibliche viziate da eventuali schemi culturali che oscurano la novità evangelica, superando la contrapposizione tra “uomo della Bibbia” e “uomo nella realtà”.
In tale situazione, si ritiene, in primo luogo, che occorra sviluppare una seria ontologia della persona, in dialogo coi dati scritturistici ed empirici; in secondo luogo, che tale ontologia individui e sviluppi il dato antropologico, per molti qualificante: la relazionalità.
In tale prospettiva, l’intelligenza è strumento a servizio dello sviluppo dell’uomo nelle sue relazioni: il modello antropologico da assumere quindi sarà l’uomo escatologico, l’uomo-in-Cristo, l’uomo-relazionalità che già nel presente (seppur ancora incompiutamente) vive, e perciò necessita, di quelle evoluzioni che più lo “in-futurano” (espressione dantesca ripresa da B. Petrà), lo configurano come io-parusiaco, cioè io-ecclesiale (ecco riacquisito il valore positivo della scienza).
Il transumanesimo, da un lato, stimola la riflessione antropologica, tirandola fuori dalle paralisi di letture dogmatiche che non si lasciano più interrogare dalla realtà; dall’altro, deve comprendere che, solo a prima vista, esso guarda positivamente l’uomo; l’oltre-uomo è di fatto un soggetto amputato della sua relazionalità, grazie alla quale, sola, egli può compiere la sua identità.
Lo scotto da pagare per realizzare l’oltre-uomo è l’uomo stesso; ma non è questa una contraddizione in termini? Non sarà forse più convincente la logica dell’incarnazione che dice non abolizione ma trasfigurazione – i cui connotati sono ancora tanto da scoprire – dell’umano?