Il diritto come processo di umanizzazione della tecnologia
di Francesco Romano • Benedetto XVI scrive nell’enciclica Caritas in veritate: “La tecnica è l’aspetto oggettivo dell’essere umano, la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo: l’uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica […]. Lo sviluppo tecnologico può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. E’ per questo che la tecnica assume un volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità” (Caritas in veritate: nn. 69 e 70)
E’ vero, la tecnica è l’applicazione di un complesso di regole fatte interagire dall’ingegno umano che rendono operative determinate leggi che lo scienziato riesce a scoprire in natura. Anche il diritto inteso in senso riduttivo può correre il rischio di essere declassato a livello di tecnica nel momento in cui assume determinate forme di legislazione o di regolamento, per esempio nell’organizzazione dello stato, di circoscrizioni, di strutture ecc. magari preoccupandosi più del loro funzionamento che del bene legato alla persona umana.
Il discrimine è segnato dall’individuazione dell’ambito d’intervento che l’uomo deve avere sia come legislatore che come scienziato sulle realtà umane, soprattutto per quanto attiene all’ambiente, alla salute, allo sviluppo economico e sociale ecc.
Quando l’uomo si interroga solo sul “come” e non sui tanti “perché” dai quali è spinto ad agire, si va affermando il primato della tecnica e il suo dominio sul mondo. In questo modo la legge verrebbe a perdere la sua finalità assumendo una funzione ancillare per porsi al servizio della tecnica nel renderla concretamente possibile nella sua applicazione.
La possibilità tecnica non può coincidere in modo assoluto con la possibilità legale perché esiste uno snodo etico che non può essere aggirato. Ciò che tecnicamente è possibile fare non sempre è lecito attuare. Nel mondo si è diffusa la sensibilità per la tutela dell’ambiente di fronte alla capacità distruttiva dell’uomo nel raffinare le varie tecnologie che vanno a incidere in maniera deleteria sull’ecosistema. Pensiamo al disboscamento, alla produzione di scorie radioattive, all’inquinamento industriale, con un danno immane da far prevedere che potrebbero occorrere anche centinaia di anni per riparare al danno causato alla salubrità dell’ambiente, in particolare del terreno, delle falde acquifere ecc.
Se il diritto si riduce anch’esso a pura tecnicalità tutto diventa possibile in modo nefasto. A questo punto il pensiero corre subito alle biotecnologie nel cui ambito non si è affermata una pari sensibilità sugli effetti che produce il loro intervento sull’uomo, vuoi per una differente visione antropologica, filosofica o religiosa a partire con tutta evidenza dal concepimento umano visto solo come materiale organico. Alcuni esempi sono dati dall’applicazione delle varie tecniche che rendono possibile la riproduzione umana, oppure ciò che riguarda l’uso delle cellule staminali e degli embrioni, le manipolazioni genetiche, il fine vita ecc. Il diritto visto come una tecnica operativa verrebbe a porsi al servizio della tecnologia che rifiuta ogni limite trasformando tutto in lecita possibilità.
A differenza delle regole tecnologiche che si occupano di oggetti e del loro funzionamento, il diritto deve essere visto anche nella sua dimensione metagiuridica, ovvero che sa riconoscere il senso che precede il suo intervento, la persona vista come soggetto. Il senso che precede il diritto ha il suo fondamento nel diritto naturale o, comunque, nei diritti della persona riconosciuti dal comune sentire come inviolabili. Partendo dal senso della persona, il diritto diventa così un processo di umanizzazione della tecnica e questo può avvenire se, come si esprime Benedetto XVI nell’enciclica sopra menzionata, l’uomo prima di interrogarsi sul come, considera i tanti perché che lo spingono ad agire.
Partendo dall’uomo, dai suoi bisogni primari e dalla realizzazione delle sue finalità, si dà senso alle cose e alle tecnologie, il “come” funziona diventa subordinato al “perché”. Ecco la ragione per cui il diritto si distingue da una semplice tecnica, cioè da un codice fatto di regole operative, dal momento che presuppone un senso inalienabile, anteriore alle cose stesse. Ne discende che anche la tecnica può avere un senso, non in se stessa, ma solo se vista in funzione dell’uomo.
La tecnica che incide sull’uomo, guardando solo al “come” funziona, senza cercare di scorgere il senso e senza porsi la domanda del “perché”, senza rinviare alla persona come criterio di interpretazione, finirebbe per deprivarlo della sua umanità rendendolo una cosa e non un soggetto. Questa è la differenza sostanziale: la tecnica ha per oggetto le cose e le regole del loro funzionamento, il diritto istituisce soggetti e rinvia ad essi per decidere il senso di una cosa o di un’azione.
Se il diritto divenisse subordinato alla tecnologia si cadrebbe in una società tecnocratica fatta di uomini che decidono su altri uomini declassati a cose, cioè ridotti a essere oggetto di una tecnica che non trova il suo vero senso. “Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicista da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato”, ci ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, n.70.