di Stefano Liccioli • In questi mesi estivi i media, complice la cronaca nazionale ed internazionale, hanno spesso rilanciato le notizie e soprattutto le immagini di vicende drammatiche. Basta pensare alla guerra tra palestinesi ed israeliani, alle persecuzione dei cristiani in Iraq e nel mondo, a quelle traversate del Mediterraneo che a volte si concludono tragicamente con la morte degli immigrati. Mai come nella nostra epoca le informazioni e le immagini viaggiano in tempi rapidissimi da una parte all’altra del pianeta. Ognuno può aver a portata di mano una foto o il video di avvenimenti, più o meno rilevanti, che sono accaduti in alcune parti del mondo. Tutta questa sconfinata disponibilità di immagini quali effetti ha? Ha forse ragione il filosofo francese Jean Baudrillard quando afferma che «il traffico di immagini sviluppa un’ immensa indifferenza nei confronti del mondo reale»? Credo che questa tesi di Baudrillard paventi il rischio effettivo che una maggiore possibilità di avere rappresentazioni della realtà produca, in maniera inversamente proporzionale, un minore interesse nei confronti della stessa. Sia che si tratti della televisione, di internet o della carta stampata spesso sembra si faccia a gara a rilanciare quante più immagini possibili per raccontare un certo evento, saturando, per così dire, le persone e generando in loro la sbagliata impressione di sapere tutto di qualcosa, solo per il fatto di averla vista e rivista. Allo stesso tempo pare che non ci si fidi più del linguaggio, della sua capacità di raccontare i fatti, pretendendo l’oggettività (ma si tratterà sempre di oggettività?) di una foto o di un video. L’altro pericolo è una certa superficialità nell’approcciarsi alla realtà nel tentativo di conoscerla: se per giudicare ci si limita a ciò che si vede, manca spesso il necessario approfondimento delle questioni e dei fatti. Nessuna foto potrà infatti cancellare completamente la distanza tra il soggetto e l’oggetto, nessun filmato potrà esprimere fino in fondo tutte quelle emozioni e sentimenti che, ad esempio, portano con se uomini e donne perseguitati. In un film un personaggio affermava che «il nemico, a trecento metri di distanza, è un bersaglio. A tre metri è un uomo». Anche nell’epoca della pervasività delle immagini, non dobbiamo accontentarci di vedere, ma dobbiamo recuperare la dimensione dell’incontro. La distanza tra le persone pone infatti le condizioni dell’odio. Se ci fermiamo a guardare gli altri da lontano, rischiamo di diventare ostili e sospettosi. Non voglio certamente dire che dobbiamo diventare tutti inviati speciali ed andare a verificare di persona quello che riporta la cronaca. Bisogna invece lasciare entrare la cronaca nella nostra vita interessandosi, in maniera non superficiale, di tutte quelle situazioni di cui i media parlano e spesso sono più vicino a noi di quanto pensiamo. In questo modo il “traffico di immagini” non ci rende indifferenti alla realtà, ma è un mezzo per incuriosirci e farci appassionare ad essa.
In generale ritengo che nell’era digitale dobbiamo aver il coraggio di ritrovare il valore dei quei “tre metri di distanza” sopracitati: sono quelli che permettono di rendere reale un volto ed incontrare (forse abbracciare) l’altro, conoscendolo con tutto il suo bagaglio di esperienze, di sentimenti, di vita vissuta. E’ così che possiamo allargare i nostri orizzonti e valutare le cose da prospettive e punti di vista diversi. Aprendoci agli altri possiamo conoscere meglio la vita.