di Alessandro Clemenzia • La ricorrenza del Concilio Vaticano II culminerà, in autunno, con la beatificazione di uno dei protagonisti di quell’evento: papa Paolo VI. Ed è proprio nell’appropinquarci a quella data che ricordiamo, nel cinquantesimo della sua uscita, la Lettera Enciclica Ecclesiam suam, in cui emerge in modo inconfondibile in cosa consiste la dimensione esodale della Chiesa: il suo movimento di uscita-da-sé verso l’altro.
È un documento cruciale, sia per l’ampiezza di orizzonte contenutistico che lo contraddistingue (e di cui verrà ora fatta una breve presentazione), sia per il delicato momento storico in cui è stato scritto: esso, infatti, è datato 6 agosto del 1964, tempo in cui i padri conciliari affrontavano le ultime questioni sul tema della Chiesa, nella terza sessione del Concilio, all’interno della quale è stata poi approvata la Lumen Gentium. È un documento dunque che porta già l’indelebile contributo del Vaticano II, e tuttavia precede la Costituzione dogmatica sulla natura della Chiesa.
L’Enciclica è suddivisa in tre parti: la prima è dedicata al tema della “coscienza” ecclesiale, o meglio, dell’autocoscienza ecclesiale, la seconda parte al “rinnovamento” e la terza al “dialogo”. Questa tripartizione trova piena luce nel titolo che introduce il documento: «Per quali vie la Chiesa Cattolica debba oggi adempiere il suo mandato», il che dice che non si tratta di un programma pastorale, ma di vie che la Chiesa deve percorrere, nell’oggi (fondamentale questa sottolineatura: significa qui ed ora), per essere ciò per cui è nata.
Una delle questioni ecclesiali prioritarie negli anni ’60 verteva su come ci si dovesse relazionare con il mondo; la risposta, secondo Paolo VI, doveva essere trovata non da una qualsivoglia discussione su tale ambito, ma nella natura stessa della Chiesa: per questo essa deve riflettere su se stessa (cf. n.27). E cosa si evince da questa riflessione? «Il primo frutto della approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo» (n.37). Per recuperare un giusto e nuovo modo da parte della Chiesa di rapportarsi con il mondo, è necessario cogliere nella sua natura il rapporto con Cristo: è “in Cristo” che l’Ecclesia può recuperare il metodo della relazione con ciò che è altro-da-lei. Tale legame a Cristo, che rende la Chiesa un “mistero”, spiega papa Paolo VI, non scaturisce da chissà quale concettualizzazione o teorizzazione di esso, ma è prima di tutto «un fatto vissuto, in cui ancora prima d’una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza» (n.39). La verificabilità del metodo non è data da una costruzione logica del discorso, ma dall’esperienza (l’experientia fidei).
E perché quest’autocoscienza accada (seconda parte dell’Enciclica), la Chiesa deve vivere in un costante atteggiamento di “rinnovamento” interiore. La riforma fa parte della natura stessa della Chiesa; per riforma, egli annota, «non si deve intendere cambiamento, ma piuttosto conferma nell’impegno di mantenere alla Chiesa la fisionomia che Cristo le impresse, anzi di volerla sempre riportare alla sua forma perfetta» (n.49).
Quando la Chiesa riflette sulla sua natura e si pone in quell’atteggiamento di costante ritorno al suo evento fondativo (terza ed ultima parte del documento), essa scopre il rapporto che deve instaurare verso il mondo: il “dialogo”. È l’essenza stessa della Chiesa a chiamarla a questo atteggiamento non solo di apertura, ma di uscita verso l’altro: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n.67). Dinamica di apertura e di piena accoglienza dell’altro che trova nella rivelazione di Dio Trinità il suo fondamento primo ed ultimo (cf. n.79).
Il dialogo, perché sia autentico e credibile, deve assumere “la misura” dell’interlocutore (cf. n.80): il fine non è convertire l’altro, ma raggiungere una piena comunione (cf. n.81). Perché ci sia un dialogo bisogna rinunciare al desiderio di ridurre l’altro a sé, e partire dall’altro, non rimanendone estraneo o esterno, ma in qualche modo “facendosi l’altro”, rispecchiando così la logica dell’incarnazione: «Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune […]» (n.90). Si tratta di un’Enciclica che invita la Chiesa a prendere coscienza di sé, trovando nel suo relazionarsi a Cristo il principio interpretativo della sua relazione con il mondo: il dialogo in questo senso è l’uscita della Chiesa verso l’altro, la concretizzazione della sua tensione a entrare in rapporto con il distinto-da-sé, assumendone (nel senso più alto della parola) la forma, la misura e il linguaggio.
Alla luce dell’Ecclesiam suam è possibile affermare che la dimensione esodale della Chiesa non è un modo pubblicitario per farsi valutare “moderni e alternativi”, ma fa parte della sua stessa natura: non vivere questa tensione esodale significa semplicemente non essere Chiesa. Nulla di ciò che è “altro” e “diverso” dalla Chiesa può essere da lei perduto o censurato: «Tutto ciò ch’è umano ci riguarda» (n.101).
Essendo la Chiesa una realtà viva, e dunque dinamica, che non basta mai a se stessa tanto da potersi considerare arrivata, è bene essere consapevoli, per concludere con le parole dell’Enciclica, che «il lavoro comincia oggi e non finisce mai» (n.121).