di Leonardo Salutati • Durante il viaggio di ritorno dalla Repubblica di Corea, sull’aereo, Papa Francesco ha parlato con i giornalisti dei momenti più importanti, delle sue emozioni durante i diversi incontri vissuti nel corso della sua visita apostolica, ma anche dell’attualità internazionale. A questo proposito, il giornalista Alan Holdren della Catholic News Agency, ACI Prensa di Lima in Perù, ha esplicitamente chiesto al Papa se approvava il bombardamento americano. Papa Francesco ha risposto che: «In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. … Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere».
L’affermazione del Papa si colloca sulla linea tracciata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, nell’ambito del principio diresponsabilità di proteggere, formalmente accettato da tutti gli stati membri dell’ONU in occasione del Summit mondiale del settembre 2005. Tale principio prevede la responsabilità di ciascuno Stato di proteggere la sua popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Al vertice, i leader mondiali convennero inoltre che, quando uno Stato non riesce a rispondere a tale responsabilità, la «comunità internazionale» ha la responsabilità di aiutare le persone minacciate di tali crimini a proteggersi. Qualora i mezzi pacifici, tra cui diplomatici, umanitari e altri, siano inadeguati e le autorità nazionali«manifestamente incapaci» di proteggere le proprie popolazioni, la comunità internazionale deve agire collettivamente in un«modo tempestivo e decisivo» – attraverso il Consiglio di sicurezza dell’ONU e in conformità con la Carta delle Nazioni Unite – caso per caso e in collaborazione con le organizzazioni regionali come appropriato.
Dal punto di vista cristiano, i fondamenti morali di tale principio sono contenuti in vari pronunciamenti del Magistero pontificio e nel Catechismo della Chiesa Cattolica. In particolare Giovanni Paolo II ha sostenuto la necessità di intervenire nelle situazioni di crisi umanitaria dichiarando «omissione colpevole» ogni forma di disinteresse da parte degli stati verso le situazioni di sofferenza, mentre il Catechismo afferma che: «la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita degli altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile. La difesa del bene comune della società esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (CCC 2265).
Nella sua dichiarazione Papa Francesco, correttamente, sottolinea inoltre che: «Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto». Tale precisazione è evidentemente conforme a quanto stabilito nell’ambito dell’ONU, con il chiaro intento di evitare il rischio che un singolo stato utilizzi l’intervento umanitario come copertura per perseguire altri interessi. Dato questo contesto, il problema che si pone riguarda la frequente mancanza di tempestività, pur prevista dal Summit del 2005, e il fatto che il Consiglio di Sicurezza non sempre è riuscito a trovare un accordo in risposta alle situazioni che chiamano in causa la responsabilità di proteggere. Nel caso presente, il Consiglio di Sicurezza non è stato ancora investito del problema, per cui l’intervento americano, comunque tardivo se consideriamo il numero dei civili costretti ad abbandonare le proprie case, vittime di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità, sembrerebbe collocarsi al di fuori delle condizioni previste dal Summit del 2005. È evidente l’urgenza che la comunità internazionale si dia finalmente delle regole adeguate!
Oltre a questo ci pare oltremodo urgente agire a livello di società civile, per prevenire seriamente situazioni quali stiamo oggi assistendo. Raccogliendo l’invito di Benedetto XVI del 2006 a Regensburg, ci pare a questo punto non più rinviabile una presa di coscienza da parte di tutti, in particolare intellettuali, leaders politici e operatori del mondo mediatico, sul bisogno di favorire realmente un clima sociale e culturale capace di promuovere la pace e il dialogo piuttosto che il conflitto e l’esclusione, attraverso un «processo di argomentazione sensibile alla verità» (Benedetto XVI, 2008). Al riguardo la riflessione di Benedetto XVI, violentemente criticata nel 2006, si rivela oggi in tutta la sua saggezza. Egli, tra le altre cose, aveva ammonito lo spirito del tempo ad emendarsi dal nichilismo che lo stava trascinando verso la rovina, denunciando l’avversione dell’Occidente «contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione» e invitava ad avere «il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione», a non rifiutarla, perché «non agire secondo ragione … è contrario alla natura di Dio… e alla natura dell’anima» (Benedetto XVI 2006). Richiamando i suoi interlocutori «a questa vastità della ragione» e al «dialogo delle culture», ricordava inoltre che, ritrovare in se stessi la vastità della ragione, «sempre di nuovo», è il grande compito che attende ogni uomo di buona volontà.