di Francesco Romano • La vita consacrata per mezzo dei consigli evangelici è un fenomeno giuridico complesso nei suoi elementi essenziali e nell’evoluzione storica plurisecolare che ha conosciuto.
Questo ambito della vita della Chiesa mostra con immediatezza che spiritualità e carismi realizzano concretamente la vocazione cristiana di sequela Christi solo se assumono forme giuridiche regolamentate da norme che definiscono il rapporto del consacrato con Dio in virtù del voto religioso. Inoltre, per la rilevanza pubblica di questo status di vita, le norme danno una collocazione sociale precisa al consacrato e ne definiscono i rapporti intraecclesiali.
Il detto popolare “l’abito non fa il monaco” contiene in sé una evidente verità nel senso che è sempre prudente guardarsi dalle apparenze, ma questo detto, divenuto proverbiale, in origine stava a indicare più modi per entrare nella vita consacrata.
La Decretale del 1199 “Porrectum nobis” di Innocenzo III fa chiarezza su un caso sottoposto al suo giudizio, rispondendo così: “…cum monachum non facit habitus, sed professio regularis, ex quo a convertendo votum emittitur, et recipitur ab abbate, talis, ut fiat monachus, et reddat Domino quae promisit, erit utique non immerito compellandus” (Decretales Gregorii IX, c. 13, 3, 31).
Questa decretale, fu sollecitata da un certo chierico canonico che prima di entrare in monastero aveva fatto voto di consacrarsi con la sola assunzione dell’abito monastico, detta “in habitu”. Ammalatosi gravemente, per paura di non fare in tempo a tener fede al voto, si affrettò a emettere la professione monastica “espressa”, cioè in manibus dell’abate. Dopo la guarigione insperata, il neoprofesso desiderò tornare al secolo contestando la validità della professione per non aver assunto l’abito monastico. Da qui il ricorso al Papa che con la suddetta decretale riconobbe la validità della professione monastica “espressa” in manibus, più certa rispetto a quella “tacita” o “in habitu”.
Questo episodio sembra un aneddoto bizzarro, ma indica anche le diverse modalità con cui la Chiesa riceveva il sanctum propositum religionis di colui che voleva consacrarsi a Dio.
Con i due avverbi “regulariter” e “irregulariter” si indicavano rispettivamente i religiosi che conducevano una vita comunitaria sotto una regola, e i religiosi che vivevano da soli nella propria casa. La vita comunitaria era solo raccomandata, ma fu imposta dal Concilio di Trento.
Altra distinzione riguardava il modo di emettere la professione religiosa, ovvero espressamente e quindi regolarmente, detta anche “in manibus”, oppure tacitamente e quindi irregolarmente, detta anche “in habitu”.
Espressa o tacita che fosse, ciò che importava era la documentabilità della professione religiosa che poteva avvenire con la testimonianza certa di una persona giuridicamente riconosciuta, come per es. l’abate o il vescovo, per cui si diceva che era stata emessa “in manibus”. L’attestazione pubblica poteva essere rappresentata anche solo da un segno convenzionale come l’abito religioso per cui si diceva che era stata emessa tacitamente “in habitu”. In questo caso avvenendo fuori della vita religiosa regolare, la forma tacita non poteva dare la dovuta certezza. Il chierico citato nella decretale aveva fatto voto di consacrarsi nella forma tacita e irregolare con la sola assunzione dell’abito religioso, ma le cose non andarono così per l’urgenza dovuta alla malattia sopravvenuta.
La professione religiosa emessa espressamente “in manibus” comportava l’esplicitazione formale dei tre voti con le solennità giuridiche e quindi la possibilità di essere ratificata da parte della Chiesa per cui si parlava di professione solenne. Per questo la suddetta decretale riconobbe la validità della professione di quel chierico emessa con una modalità diversa dalle sue intenzioni iniziali.
La professione sempliciter emissa, cioè priva delle solennità giuridiche, era destituita di documentabilità pubblica, in quanto emessa tacitamente solo “in habitu”.
Per la rilevanza sociale che determina lo status giuridico del consacrato, solo la professione solenne, essendo documentabile con certezza, in caso di attentato al matrimonio ne comportava la nullità.
Per dare certezza allo status giuridico del consacrato, anche in riferimento all’impedimento matrimoniale che deriva dalla professione religiosa, Bonifacio VIII con la Decretale “Quod votum” (Liber Sextus Bonifacii VIII, Lib. II, Tit. XV, cap. unic.) decise che la professione religiosa tacita, cioè “in habitu”, fuori dalla vita religiosa regolare, non produceva più effetti giuridici essendo priva di documentabilità.
Con valenze differenti la Decretale “cum monachum non facit habitus” e il detto popolare “l’abito non fa il monaco” si intersecano tra loro arrivando alla stessa conclusione: il solo fatto di indossare un abito religioso o di apparire in un certo modo non dà certezza della vera realtà che dietro si cela.