L’avarizia e la paura della morte

 

Il Nuovo testamento in genere e i vangeli in particolare portano a unità e compimento questo duplice messaggio. La vera unica ricchezza del cristiano, infatti, è il Signore. Lui solo ci libera dal male e dalla morte. Cercare la sicurezza nell’accumulo dei beni materiali è un’illusione disperata e folle. Donando generosamente ai poveri, dimostriamo di amare il Signore, ci prepariamo un tesoro in cielo e orientiamo il nostro cuore ad accogliere la vittoria sulla morte che soltanto il Signore può donarci.

Il teologo Enrico Chiavacci ha felicemente proposto di sintetizzare la morale evangelica sull’uso dei beni in due precetti fondamentali, fortemente in contrasto con la mentalità corrente: “Non cercare di arricchirti” e “Se hai, hai per dare” (cf. E. Chiavacci, Teologia morale 3/2, Assisi 1990, pp. 214-250).

Al giovane ricco è richiesto di vendere i beni e darli ai poveri non come condizione di una perfezione etica, ma per essere libero di seguire Gesù. Egli però se ne va via triste perché non riesce a distaccarsi da quello che possiede (cf Mc 10,17-27). Zaccheo, ricco e ladro, accoglie Gesù e, pieno di gioia, si scopre libero di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto a chi aveva frodato (Lc 19,1-10).

L’avarizia, l’attaccamento ai beni, come tutte le dipendenze, è effetto e causa della tristezza. La libertà di donare è invece effetto e causa della gioia. L’avaro è una persona sola perché è impedito nell’amare da ciò che ha. Il Signore ci guarisce dalla solitudine rendendoci liberi di amare e quindi di donare con gioia.

La fuga disperata dalla paura della morte nella ricerca dei beni materiali può concretizzarsi anche nel vizio opposto e speculare all’avarizia: la prodigalità che consiste nello sperperare i soldi per acquistare gratificazioni: status simbols, visibilità, piacere o comunque sensazioni nuove. Tutte varianti del “simbolo dell’immortalità”.

Avarizia e prodigalità, secondo la teologia medievale (cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, qq. 117-119) si oppongono entrambe alla virtù della liberalità, che è parte della giustizia che consiste nella disposizione a dare generosamente i propri beni a chi è nel bisogno e per le necessità sociali. La virtù, infatti, è di norma l’atteggiamento giusto – il giusto mezzo – fra due vizi contrari, per eccesso e per difetto.

Il discorso sull’avarizia e i vizi collegati non può rimanere circoscritto alla gestione del denaro e dei beni materiali. “Il Signore ci ha dato la vita, e un tempo per vivere che solo lui conosce. Questo tempo che ci è donato non è nostro: è per il Regno e dunque per gli altri” che “hanno sempre bisogno di noi e del nostro tempo: non fosse altro che per essere ascoltati, per sentirsi amati. (…) Il nostro tempo è contato: non possiamo sprecarlo, ne spenderlo per avere di più quando abbiamo già abbastanza. E lo stesso si deve fare per l’applicazione delle nostre capacità fisiche e culturali: esse non devono servire solo, e neppure primariamente, a guadagnare. Devono servire a fratelli che ne hanno bisogno” (Chiavacci, Teologia morale 3/2, 249-250).