di Stefano Tarocchi • La parabola della vigna, del capitolo 20 del Vangelo di Matteo, anch’essa da annoverare fra le parabole del regno dei cieli, presenta alcune caratteristiche degne di approfondimento.
La vicenda narrata è ben conosciuta. Come in molti paesi del mondo antico si è assunti per un lavoro a giornata, capace di assicurare ad una famiglia la possibilità di superare indenne un giorno, ed un giorno soltanto.
In alcuni paesi del mondo ancora oggi si è pagati a settimana. In altri, comprese alcune zone del “sottosviluppo” italiano, è sfruttata così la manodopera di immigrati clandestini, sottopagati e costretti al silenzio per una paga su cui c’è anche da pagare una tangente al caporione locale.
Nel testo di Matteo invece, la paga giornaliera è stabilita in un “denaro” – parola quanto mai evocativa –, la moneta che definisce appunto la differenza tra la fame e un’esistenza almeno dignitosa. È questa la misura che troviamo anche in altri passi della letteratura evangelica. Due capitoli avanti, nello stesso vangelo di Matteo, definisce la misura da restituire ad un compagno della stessa “impresa”: trecento denari (quasi un anno di lavoro), che un “dipendente” deve riscuotere da un suo “collega”, che però è incapace di restituirla. Questi non ha i mezzi e quindi è nella medesima condizione dell’altro, che però deve al “padrone” direttamente una cifra molto più alta: diecimila talenti. A titolo di cronaca questa cifra è stata stimata come 60 milioni di paghe giornaliere di un operaio di allora. Se il “talento” equivaleva a seimila denari, cioè al salario di seimila giornate lavorative (oltre sedici anni di lavoro), diecimila talenti corrispondevano a quasi 165.000 anni di lavoro.
Ma nella parabola del capitolo 20, sembra essere in gioco molto meno. Decisamente molto meno: la paga di un solo giorno. Tuttavia, tra l’essere chiamati al lavoro oppure no corrispondeva la differenza tra la fame e la sopravvivenza. Ora, anche se la paga quotidiana era frutto di un accordo man mano stabilito (vedi Mt 20,2 con il verbo originale synphonéo, ovvero l’accordo di due o più suoni, da cui il termine “sinfonia”), la cifra era di fatto l’abitudine del tempo.
Nella parabola dei contadini della vigna però viene descritto un fenomeno inatteso: la corsa continua del padrone della vigna ad assumere sempre nuovi contadini. Il testo di Matteo riferisce che dopo la chiamata avvenuta all’alba, ne segue una seconda alle nove del mattino, e poi una terza a mezzogiorno, una quarta alle tre pomeridiane e una quinta alle cinque. Sono disoccupati (lett. “pigri che non lavorano il terreno”) che nessuno ha chiamato al lavoro, o non si sono fatti trovare al momento giusto, il mattino presto, e quasi rassegnati a non portare a casa neanche uno spicciolo, che la generosità e lo spirito di iniziativa del padrone, il padrone di casa (il padre di famiglia!), ha portato al lavoro.
Si presume che l’accordo sullo stipendio sia il medesimo per tutti, ma inevitabilmente è diversa la fatica e le avversità del clima: quello che poi verrà chiamato “il peso della giornata e il caldo” (Mt 20,12), e proprio da colui che, chiamato al lavoro dall’alba fino al tramonto, che oppone al padrone di casa la sua rivendicazione sullo stipendio, evidentemente ritenendosi penalizzato nei confronti di chi di fatto ha lavorato “un’ora soltanto”. E prima delle parole c’erano le mormorazioni, che nel cammino biblico denotano quanto meno una mancanza di fede nella provvidenza.
L’inizio della risposta del padrone (“amico”, lett. “compagno”), io non ti faccio torto. Non hai forse concordato (synephônesas) con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene”) non ammette repliche e sembra quasi stroncare sul nascere qualsiasi opposizione tra i primi e gli ultimi.
A proposito, quest’espressione divenuta quasi proverbiale, ma in senso superficiale, è la cornice del racconto (cf. Mt 19,30 e 20,16).
Il padrone di casa poi aggiunge: “Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te”. E fornisce la spiegazione: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio?”.
La traduzione italiana CEI della parabola quindi conclude: “Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” (cf. Mt 20,13-15).
La scelta di questa resa del testo originale trascura però la vera chiave interpretativa, al di là del fatto che l’agire divino è infinitamente lontano da quelli degli uomini, per cui si rovesciano i normali parametri del giudizio (“gli ultimi saranno i primi e primi gli ultimi”: Mt 20,16).
Infatti, nel sottofondo di quell’invidia c’è ben altro: il testo originale suona infatti: “il tuo occhio è maligno (ponêros), perché io sono buono”. È proprio la contiguità con il male e con il maligno che Matteo ha già riferito nella chiusura della preghiera del Padre nostro, che provo a rendere così: “non lasciare che entriamo nella prova, ma liberaci dal male (oppure dal Maligno) (ponêrou)” (Mt 6,13).
L’occhio maligno di colui che ha il suo proprio metro per giudicare le cose, di chi deve affermare se stesso senza guardare in faccia a nessuno e pensa di lasciare Dio fuori dal proprio cammino quasi mettendosi al suo posto, non permette di accoglierne la bontà ricca di misericordia del suo guardare alla condizione umana. Accettare o respingere la sua lezione e la chiave della saggezza.