Se il Magnificat non piace al re
di Carlo Nardi • «Della superbia de’ re Astulfo: e’ fece che li preti non cantasseno un verso della Magnificat. Lo nostro Signore Idio non volse tanto male, come leggerete innella seguente novella»: di Giovanni Sercambi (Novelle a cura di G. Sinicropi, I, Bari 1972, pp. 273-278) nella lingua toscana del trecento, la sessantunesima novella, intitolata in latino de superbia contra rem sacratam, “tracotanza contro una cosa sacra”. Perché? Non c’è che da raccontarla.
C’era una volta un re – ma non identificato –, Astolfo di Navarra, a Pamplona sui Pirenei spagnoli. Egli, assistendo al vespro – per devozione, per ragioni d’ufficio? Chissà –, udì cantare il Magnificat, la Magnificat, come dice il Sercambi, e come si sentiva dire dai nostri vecchi. Quando il sovrano captò il versetto Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles, anche per il poco latino che sapeva annusò che gatta ci covava. Come gli fu detto che voleva dire che Dio «ha rovesciato i potenti dai troni ed esaltato gli umili» (Lc 1,52), imbronciato cassò la frase pari pari: addirittura la interdisse «sotto pena della vita».
Che escogitarono i reverendi? «Li preti e’ frati, avendo ricevuto tal comandamento, la ditta Magnificat dir non usavano che altri udire la potesse, ma tra loro con piana voce tal Magnificat diceano» (p. 274). Insomma, furono subito proni ai voleri dell’augusto sovrano, ma con un’obbedienza a mezzo che, come succede, non era né lealtà al re né riverenza a Dio: non al re perché quelle parole le dicevano, non a Dio, perché, in sostanza, “si obbediva più agli uomini che a Dio” (il contrario di Atti 5,29). Così, per salvar capra e cavoli, si trovarono “a Dio spiacenti e agl’inimici sui” (Dante). E soprattutto a Dio.
Come andò a finire la storia? Il re, forse per sbollire la stizza e rilassarsi un po’, decide di recarsi ai bagni. Ma lì un cencioso pellegrino entra in spogliatoi molto riservati e riesce persino a rivestirsi dei panni regali: tant’è che, una volta uscito dalle terme, tutti, persino la regale consorte, lo prendono per il sovrano. Al contrario, il re vero, nudo bruco, giunto alla reggia sotto le finestre della sua camera, vi scorge il mendicante abbracciato alla regina nel sacro cubicolo.
A quel punto il re si compunge: «per certo io debbo avere qualche grande peccato che Dio mi vuole punire a questo modo». Sennonché il misterioso pellegrino, in realtà un angelo sotto mentite spoglie, gli motiva il perché dell’umiliazione: «Idio t’ha voluto dimostrare che tutto è suo e puòlo dare a chi vuole, e similmente ritorre» (p. 277).
E il Magnificat fu ricantato, tutto quanto e ad alta voce. Difatti, «per non volere che quel dolce salmo fatto dalla Vergine Maria (…) fusse nascoso, ma che palesemente et alto con riverenzia si cantasse (…), dispuose la Divina Bontà a mandare uno angelo per riparare alla malvagità del ditto re» (p. 274).
Per la superbia regia ci volle che il sovrano, denudato di autorità ed affetti, si rendesse conto della sua fragilità. Nudità come verità, da Giobbe ad Andersen.
Anche il Padre Eterno, però, dovette ricorrere alla straordinaria amministrazione di quell’angelo camuffato da «pellegrino con panni grossi» (p. 275), a quanto pare anche piuttosto arzillo, perché la prassi ordinaria di quella sua chiesa era andata in black out proprio per la trovata, più furbesca che intelligente, di dir le parole sottovoce, di nascosto, pissi pissi.