“La via di Cristo”. A proposito di un’opera giovanile del beato Paolo VI
di Gianni Cioli • «Bisogna dar dottrina autentica e dottrina efficace, credere che il discorso della montagna, o la dottrina del Concilio di Trento sulla giustificazione, sono tali documenti che si debbano almeno presupporre in ogni lezione. Morale cristiana non è solo morale razionale, come troppo spesso si crede. È anche superrazionale; è continua derivazione dal dogma; e non tende puramente a fare dei galantuomini, ma normalmente a fare dei santi».
Queste affermazioni di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI risalgono ad una pubblicazione degli anni trenta: La via di Cristo. Schemi di lezioni sui precetti della morale cattolica per gli studenti di scuole superiori (Roma 1931).
Nello scritto si delinea con chiarezza quella che sarà la struttura dell’insegnamento morale del futuro Papa.
In occasione della sua beatificazione mi è caro presentare alcuni tratti specifici del pensiero e della sensibilità di Montini quale emerge da questa piccola opera che, nella sua singolare lucidità, precorre per certi versi il rinnovamento antropologico e morale delineato dal concilio Vaticano II (cf. Gaudium et spes 22; Optatam totius 16).
Con estrema chiarezza, il giovane Montini coglie nella questione antropologica il presupposto di ogni argomentazione morale.
L’intento dichiarato è quello di rendere palpabile «il carattere differenziale e originale della morale cristiana […], studiare quella morale non solo in ciò che proibisce e in ciò che è lecito fare (morale dei casisti, dei minimisti, dei tiepidi); ma anche in ciò ch’essa invita e comanda di compiere generosamente (come per sé la vollero i santi)».
Il futuro Papa tende a prendere le distanze dall’impostazione giuridica assunta dalla teologia morale nella prima metà del XX secolo; impostazione che ha certamente sofferto di carenze di fondamento nell’antropologia teologica.
Secondo il pensiero di Montini è necessario infondere a tutta la trattazione teologico morale «l’elemento evangelico-soprannaturale in modo più organico, che non la semplice citazione di prova». Nella dimensione teologica la morale deve trovare il suo fondamento, quale risposta alla domanda sull’uomo: essa «deve insegnare la scienza dell’uomo vero, dell’uomo perfetto».
Su questa base il discorso sfocia nella prospettiva della santità quale ideale etico del cristiano. «La morale cristiana tende a fare dell’uomo il Santo». Non si tratta di un ideale facoltativo; «è dovere di ogni cristiano raggiungerlo; Tendervi almeno […]. Il concetto di santità non è un puro concetto limite, concetto-tipo; ma il concetto universale della moralità normale cristiana». Non ci si può contentare di considerare l’aspetto minimale dell’etica, il lecito, pena il rischio di «vivere una vita mediocre, e progressivamente decadente, tiepida».
Nel presentare la sua visione della santità il futuro Papa si esprime con una terminologia che appare sorprendentemente vicina a quella che adotterà, in seguito, a proposito del rapporto fra autocoscienza, santità e necessaria riforma Chiesa che costituisce il centro dinamico dell’enciclica Ecclesiam suam e, forse, dell’intero magistero montiniano:
«Il concetto di santità è un concetto di adeguazione fra l’uomo reale e l’uomo ideale. L’uomo ideale, come Dio lo ha pensato, è quello che è conforme al prototipo dell’umanità: Cristo. Ora questa conformità non si ottiene che con la grazia, carità di Cristo mediante lo Spirito santo diffusa nella nostra anima. Questo è il fondamento della santità; il fondamento mistico».
Vi è tuttavia anche un aspetto ascetico della santità che dipende dalla volontà umana; «l’amore (la carità), atto della volontà, primo e riassuntivo precetto, ci dà l’essenza della perfezione cristiana». Vista così, «relativamente a noi che siamo in via», la santità o perfezione «è sempre suscettibile di crescita; non essendo mai in questa vita né fermo né completo il nostro amore».
Alla luce della tensione fra ideale e reale, Montini pensa dunque di poter esprimere la corretta comprensione d’autonomia morale: «La nostra morale a) difende la libertà, cioè l’autonomia, o meglio, l’autogenia dell’atto; b) predica la connaturalità della legge con il soggetto che deve eseguirla; o conformità al nostro essere; c) ma le riconosce come forza obbligatoria, e come ultima norma ideale la lex aeterna, la sapienza regolatrice di Dio; non che la particolare volontà di Dio notificatoci mediante la rivelazione. Perciò l’uomo avrà davanti a sé un “io” perennemente a sé superiore, a cui tendere e verso cui progredire. Se l’uomo è fatto a somiglianza di Dio, noblesse oblige, egli tenderà a realizzarsi nei suoi atti qual è nell’intenzione divina che così l’ha creato: vorrà essere ciò che è nel pensiero di Dio. Sentirà la sproporzione fra il concreto e l’ideale, e la sua umiltà,lungi dal deprimerlo, sarà la sua forza di ascesa».